Marzo 17th, 2017 — General, No OGM
Dal Messaggero Veneto del 18/07/13
Assolto Fidenato, l’Ogm non è reato
PORDENONE Assolto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Una sentenza, quella pronunciata dal giudice monocratico del tribunale di Pordenone Ridolfo Piccin, pressoché scontata: la procura aveva chiesto l’assoluzione di Giorgio Fidenato, leader di Agricoltori federati, dopo che, su richiesta del giudice, l’8 maggio si era pronunciata la Corte di giustizia europea. Il mais ogm Mon 810 si può coltivare, anche in Italia, dice l’Europa, senza la preventiva autorizzazione nazionale. Lo conferma la magistratura. Ma le battaglie dell’imprenditore agricolo di Arba e di Futuragra (associazione di agricoltori che si batte per l’introduzione delle biotecnologie), non sono finite. Il presidente Duilio Campagnolo non ha dubbi: «L’Italia è l’unico Paese in cui si devono condurre battaglie civili per fare impresa. Gli effetti di questo atteggiamento ideologico da caccia alle streghe sono devastanti: in 10 anni di mancato accesso all’innovazione, l’agricoltura italiana ha perso 5 miliardi di euro. Chi ha sbagliato paghi». C’è poi da approntare un ricorso al Tar, sottolinea il difensore di Fidenato, l’avvocato Francesco Longo, contro le nuove limitazioni imposte dal Governo: «Lede il principio del diritto comunitario, perché non fissa il quadro di coesistenza, ma esclude la coltivazione ogm per 18 mesi». Il processo – cominciato il 2 febbraio 2011 con l’opposizione al decreto penale di condanna da parte di Fidenato, al pagamento di 30 mila euro di multa e alla distruzione del mais ogm seminato a Vivaro e Fanna nella primavera 2010 – si è esaurito ieri con le richieste delle parti e la sentenza. «Assolvere Fidenato», è la richiesta della procura. L’avvocato di parte civile per conto della Provincia, Andrea De Col, ha giocato l’ultima carta: «Il diritto comunitario mette in discussione il diritto costituzionale alla proprietà e alla libertà dell’iniziativa economica. Si pronunci la Corte costituzionale». Richiesta alla quale si sono poi associate le altre parti civili: Regione, Slow Food, Coldiretti e Codacons Fvg. Ribatte la difesa: «L’unico limite è costituito dal danno per la salute o l’ambiente, che non c’è. Possono essere adottate misure di coesistenza, tra le diverse coltivazioni, non divieti». Al rientro dalla camera di consiglio, il giudice, che aveva già disposto il dissequestro di quanto sequestrato a Fidenato, all’indomani dell’ordinanza della Corte di giustizia europea, pronuncia sentenza di assoluzione. Nelle aule del tribunale di Pordenone il caso è chiuso. Non per Futuragra, che intende chiedere i danni di dieci anni di raccolto ogm perso. Non per Fidenato, che intende ricorrere al Tar contro il recente decreto del Governo che vieta per 18 mesi la coltivazione ogm. «Non esiteremo a impugnarlo nuovamente – annuncia Campagnolo – e a denunciare alla commissione europea questo ennesimo mostro giuridico, frutto dell’ignoranza demagogica in materia scientifica ed economica al pari delle norme anti ogm proposte dalla Regione Friuli Venezia Giulia». «Spero – ha detto Fidenato – che finiscano le guerre di religione e ci si sieda a un tavolo, senza prevaricazioni e mettendo al bando ipocrisie sul fatto che in Italia non c’è bisogno di ogm, quando invece i mangimi non possono più fare a meno di mais transgenico e ne sono pieni»
Confermata la scelta della Corte europea
UDINE «La sentenza non ci sorprende». Lo afferma Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia, commentando l’assoluzione di Giorgio Fidenato per la semina di mais Ogm. «Il processo – prosegue Burdese – è stato condizionato in maniera determinante dall’intervento della Corte di giustizia europea di maggio che noi avevamo criticato nel metodo e nel merito». Per Stefano Cavallito, Alessandro Lamacchia e Katjuscka Piane, legali dell’associazione della chiocciola, costituitasi parte civile nel processo, «l’ordinanza europea si è fondata su un fraintendimento grave sulla natura dell’autorizzazione alla semina degli Ogm».
Dobbiamo puntare sui prodotti tipici
UDINE «L’agricoltura italiana in questo momento non ha bisogno degli Ogm»: lo ha affermato il ministro delle Politiche agricole, Nunzia De Girolamo. «Non entro nel merito della sentenza del tribunale di Pordenone – ha detto il ministro –, sarebbe scorretto commentare qualcosa che non conosco. La nostra scelta di vietare gli Ogm in Italia è una scelta politica di mercato, ma anche di rispetto di ciò che ci chiedono gli agricoltori italiani e i cittadini. Noi siamo conosciuti in tutto il mondo per la tipicità e la biodiversità, per l’eccellenza dei nostri prodotti. Fare attraverso gli Ogm un prodotto simile a quelli della Cina e dell’America ci farebbe finire di essere quegli straordinari esportatori del made in Italy agroalimentare che siamo».
Marzo 17th, 2017 — General, Mare
Dal Piccolo del 18/07/13
«Rigassificatore, bocciati i siti alternativi»
di Silvio Maranzana «Non solo quella prevista di Zaule, ma anche qualsiasi altra localizzazione del rigassificatore di Gas Natural in un punto della costa all’interno del porto di Trieste andrebbe a pregiudicare lo sviluppo dei traffici dello scalo». È la perentoria conclusione alla quale è giunta la Commissione istituita dall’Autorità portuale dopo che il decreto del 18 aprile dell’ex ministro Clini ha sospeso l’efficacia della Via rilasciata nel 2009 al progetto di Gas Natural, subordinandola a un’eventuale rideterminazione delle previsioni di sviluppo del Piano regolatore del porto per renderlo appunto compatibile con il rigassificatore. Della Commissione hanno fatto parte Eric Marcone (Authority), Umberto Laureni (Comune di Trieste), Nerio Nesladek (sindaco di Muggia), Vittorio Zollia (Provincia), Giorgio Lillini (Genio civile), Natale Serrano (Capitaneria di porto), Fabrizio Zerbini (Associazione terminalisti), ed è stata inoltre aperta a rappresentanti di organizzazioni che promuovono la protezione dell’ambiente: Roberto Sasco (Italia Nostra), Carlo Franzosini (Riserva di Miramare), Dario Predonzan (Wwf) e Lucia Sirocco (Legambiente). «Alla luce dei dati di traffico attualmente in essere, delle previsioni del Piano regolatore attualmente in itinere, nonché degli scenari che si determinerebbero nei traffici portuali quali evidenziati dagli studi commissionati dall’Autorità portuale – conclude la relazione – la Commissione non ritiene né utile, né percorribile la rideterminazione del Piano regolatore portuale per renderlo compatibile con l’impianto di rigassificazione proposto dalla società Gas Natural. La Commissione è del parere che rispetto a quanto richiesto dal Decreto interministeriale, non si possa provvedere alla rideterminazione delle previsioni di sviluppo espresse dal Piano regolatore del porto senza arrecare grave nocumento allo sviluppo dei traffici e del porto medesimo. La Commissione ritiene incompatbile – è appunto la conclusione – ogni altra localizzazione del terminale Gnl di rigassificazione all’interno dell’ambito portuale di Trieste per gli stessi motivi e le stesse criticità evidenziati dal caso dell’impianto localizzato a Zaule». Nella relazione si fa presente che le sole opere previste dal Piano regolatore fanno stimare in 2900 le navi che annualmente dovrebbero percorrere il canale di accesso al porto. «In tale contesto – viene sottolineato – l’introduzione delle navi gasiere (stimate in almeno 100 unità annue sulla base delle dichiarazioni della società Gas Natural) porterebbero a delle condizioni di traffico eccessivo sul canale Sud creando disservizi (quali tempi di attesa) per gli altri terminal». Ma si entra anche nel dettaglio prefigurando che «nello scenario di lungo periodo la presenza di navi gasiere abbia quali conseguenze: un incremento del tasso di occupazione del canale fino al valore del 70% (superiore al valore massimo di funzionamento ottimale); un generale incremento dei ritardi dei tempi di arrivo e partenza delle navi; un particolare ritardo delle navi che non hanno priorità di ingresso e di uscita con conseguenti difficoltà dei traffici relativi (in particolare ro-ro e contenitori)». Dopo aver passato in rassegna i numerosi tipi di traffici presenti in porto, l’incremento fatto registrare negli ultimi anni e in particolare il pericolo di interferenze con le petroliere dirette al terminale della Siot (più di 500 all’anno), la Commissione rileva che «nei principali porti del mondo dove sono stati costruiti impianti di rigassificazione sono state introdotte da parte delle locali Autorità marittime ordinanze di accesso che hanno modificato in senso più restrittivo le priorità di ingresso e uscita delle navi, a svantaggio dei traffici più tradizionali ritenuti non prioritari da un punto di vista della sicurezza, mentre, per gli aspetti di security e safety, hanno imposto aree di rispetto che, di fatto, sotrarrebbero spazi ad altre attività in banchina, incidendo altresì sulla movimentazione delle navi all’interno dell’area portuale e, in rada, sulle superifici destinate alle navi alla fonda. La Commissione ritiene che nell’ipotesi di costruzione del terminal Gnl sarebbero introdotte anche per il proto di Trieste nuove misure in tema di priorità di ingresso e uscita delle navi, oltre a zone di rispetto in corrispondenza dell’impianto e in rada, limitando l’operatività dei terminali esistenti e pregiudicando la potenzialità di sviluppo di nuove opere».
Marzo 17th, 2017 — General, Nocività
da Il Piccolo del 24 luglio 2013 Pagina 23 – Gorizia-Monfalcone
Morti di amianto, udienza-lampo La sentenza slitta al 15 ottobre
La data subordinata al rigetto da parte della Cassazione del ricorso per “legittimo sospetto” Il procedimento sarà comunque concluso dal presidente Matteo Trotta, a breve trasferito a Trieste
MAXI-PROCESSO»SI ALLUNGANO I TEMPI
La sentenza del maxi-processo per le morti da amianto potrebbe essere emessa il prossimo 15 ottobre. È questa la data fissata dal giudice monocratico Matteo Trotta per riprendere il processo bloccatosi lo scorso 25 giugno per la richiesta di legittimo sospetto avanzata dall’avvocato Alessandro Cassiani, difensore di Giorgio Tupini, ex dirigente dell’Italcantieri e uno dei principali imputati. Lo ha deciso ieri mattina il dottor Trotta nel corso di una breve udienza e dinanzi a una sala semivuota. Pochi gli avvocati presenti tra i quali Corrado Cassiani, Riccardo Cattarini, Francesco Donolato, Roberto Maniacco, Elisa Moratti e Mariarosa Platania; assente invece Cassiani. La data indicata dal giudice, per sua ammissione, è la più vicina possibile a quella del 24 settembre, giorno in cui la Corte di Cassazione deciderà sul legittimo sospetto. Trotta è stato chiarissimo e ha quasi tolto la parola all’avvocato Platania – tutela alcune famiglie di lavoratori morti e costituitesi parte civile – che chiedeva di anticipare l’udienza. «Lo dico chiaramente per tutti – ha detto Trotta quasi scandendo le parole – il 15 ottobre è la data più stretta possibile. Nell’ipotesi che il legittimo sospetto venisse accolto è necessario un determinato tempo per le le comunicazioni e le notifica della decisione alle parti, giudice compreso. In questo caso il processo sarebbe azzerato e riprendere daccapo in altra sede. Se la Suprema corte dovesse respingere invece la richiesta si procederà il 15 ottobre con le incombenze già fissate il 25 giugno scorso e cioè le repliche delle parti e la decisione del giudice». Come più volte detto un accoglimento del ricorso significherebbe azzerare tutto. È quasi certo – negli ambienti di Palazzo di giustizia lo danno per scontato – che nonostante il trasferimento a Trieste, il dottor Trotta sarà autorizzato a concludere il processo ormai giunto a un passo dal traguardo finale dopo ben 95 udienze. Anche sul legittimo impedimento, chiesto dall’avvocato Cassiani a nome del suo cliente, c’è un opinione diffusa tra gli addetti ai lavori che la Suprema corte rigetti il ricorso anche perché non appaiono valide le motivazioni adottate dal legale di Tupini. Chi ha seguito l’intero processo, snodatosi per oltre tre anni, ha potuto cogliere nel dibattimento tra le parti un clima sereno e tranquillo anche perché la quasi totalità delle udienze sono state seguite da pochissime persone. Solamente nella prima udienza e nell’ultima la sala riservata al pubblico era affollata ma si è trattato di non più di 50 persone che non hanno certo creato problemi di ordine pubblico. Il maxiprocesso, iniziato nell’aprile di tre anni fa, vede imputate 35 persone tra i vertici dell’ex Italcantieri e i rappresentanti delle ditte appaltanti. Tutti devono rispondere di omicidio colposo per la morte di 85 lavoratori dei cantieri. La Procura della Repubblica ha chiesto la condanna per i soli dirigenti dell’Italcantieri e l’assoluzione per gli altri, compresi gli addetti alla sicurezza. Nell’udienza del 15 ottobre l’accusa sarà rappresentata in aula dal solo pm Valentina Bossi perché l’altro pm, Luigi Leghissa, il 7 ottobre prenderà servizio alla Procura di Caltanisetta.
da Il Manifesto del 24 luglio 2013
La notizia è caduta come un macigno sui familiari delle vittime dell’amianto dei cantieri navali di Monfalcone. Lo scorso 24 giugno attendevano nel tribunale di Gorizia una sentenza che condannasse i vertici industriali per la morte di ottantacinque operai, ma l’avvocato Cassiani, difensore di un dirigente dell’ex Italcantieri, ha tentato una mossa d’arrocco in extremis presentando un’istanza di trasferimento del processo per legittima suspicione. Il giudice Matteo Trotta aveva fissato una nuova udienza per ieri, il 23 luglio, in attesa del parere della Cassazione, nella speranza di arrivare a sentenza visto il suo imminente trasferimento al tribunale di Trieste. Un nuovo colpo di scena è arrivato però pochi giorni fa, quando gli avvocati dei familiari degli operai hanno appreso che la Cassazione si esprimerà solo il prossimo 24 settembre. Nell’udienza di ieri al giudice non è rimasto altro che aggiornare al 15 ottobre, la prima data disponibile dopo il parere della Cassazione. Se la Corte Suprema dovesse spostare il processo, questo ripartirebbe da zero, con la possibilità che il reato cada in prescrizione. Una beffa, dopo novantuno udienze in tre anni, che si prenderebbe gioco della domanda di giustizia delle vedove e dei familiari degli operai uccisi dall’amianto, usato per coibentare le navi nei cantieri monfalconesi. Chiara Paternoster, portavoce dell’Associazione Esposti, non usa mezzi termini: «I familiari sono ormai sfiniti, in quindici anni hanno dovuto organizzare sit-in, chiedere l’intervento del Presidente Napolitano e dell’allora Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Trieste, dott. Beniamino Deidda, per riuscire a veder celebrato questo processo». Come le Madri di Plaza de Mayo, i familiari degli operai hanno dovuto sfilare per mille giovedì davanti alla procura di Gorizia. E adesso la mossa della difesa degli imputati rischia di far cadere una pietra tombale sulle loro pretese di giustizia: «Confidiamo che venga riconosciuta l’assoluta infondatezza dell’eccezione di controparte, che il processo si chiuda presto e che giustizia sia fatta», aggiunge Paternoster. Quello dei familiari dei coibentatori esposti all’amianto, come ha scritto Enrico Bullian nel saggio Il mal e che non scompare , è stato un vero «calvario». I processi aprono delle ferite e senza una sentenza è difficile arrivare a elaborare il lutto. La speranza è che il processo rimanga a Gorizia e che il Csm rinvii il trasferimento del giudice titolare del processo o ne disponga l’applicazione a Gorizia nel tempo necessario per arrivare a sentenza. Per sapere come finiranno le storie giudiziarie di ottantacinque metalmeccanici di Monfalcone, uccisi da tumori correlati all’amianto, bisognerà aspettare con paziente tenacia il prossimo 24 settembre, tenendo ben presente, come gridano le Madri di Plaza de Mayo, che «l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona».
da Il Piccolo del 23 luglio 2013 Pagina 24 – Gorizia-Monfalcone
Amianto, udienza “apri e chiudi”
Garanzie affinchè il giudice Trotta, vicino al trasferimento a Trieste, possa concludere il maxi-processo
Un’udienza-lampo, apri e chiudi, limitandosi a fissare il rinvio dopo il 24 settembre. È quanto succederà questa mattina, al Tribunale di Gorizia, per il processo amianto che vede imputati di omicidio colposo 35 persone tra i vertici dell’ex Italcantieri e i rappresentanti delle ditte appaltanti, per la morte di 85 lavoratori dei cantieri. Risulta, infatti, ben difficile prevedere scenari diversi, considerata la rimessione degli atti da parte del presidente Matteo Trotta, alla Cassazione, in virtù dell’istanza per “legittima suspicione” sollevata dall’avvocato Alessandro Cassiani, difensore di Giorgio Tupini, e motivata dal fatto che il Tribunale di Gorizia non sarebbe in grado di esprimere un giudizio sereno ed equilibrato. La Suprema Corte ha già stabilito la data del 24 settembre per decidere in merito all’accoglimento o meno dell’istanza di rimessione, decretando pertanto se andare ad un nuovo procedimento con il trasferimento di sede e altri giudici, oppure invece permettere al processo goriziano di concludersi con l’attesa sentenza. È evidente, pertanto, che il rinvio dell’odierna udienza, al Tribunale di Gorizia, non potrà che essere fissato oltre la data del 24 settembre. Tenendo conto dei passaggi di rito, come le notifiche, si potrebbe ipotizzare che la successiva udienza possa essere stabilita tra fine settembre e il mese di ottobre. Intanto, sembra che il Consiglio superiore della magistratura potrà autorizzare l’applicazione del presidente Matteo Trotta a Gorizia, al fine di completare, in un modo o nell’altro, il procedimento. Si tratta di un aspetto molto importante, proprio in vista del prossimo trasferimento del magistrato a Trieste, evitanto pertanto comunque un eventuale azzeramento del processo. La richiesta di rimessione per “legittimo sospetto” era stata avanzata dall’avvocato Alessandro Cassiani, durante l’ultima udienza del 24 giugno scorso, all’apertura del processo, per il quale veniva ormai dato per scontato il pronunciamento della sentenza. Il legale aveva quindi sostenuto che le pressioni esercitate nei giorni precedenti, gli articoli dei giornali e la richiesta, poi respinta, del Procuratore capo della Repubblica di autorizzare riprese in video-conferenza tra l’aula del Tribunale e la sala conferenze del San Polo, per evitare eventuali problemi di ordine pubblico, non garantivano ai giudici serenità di giudizio. Contro la richiesta del legale s’erano espressi il pm Valentina Bossi e gli avvocati delle parti civili. Il giudice Trotta, dopo 2 ore e mezza di camera di consiglio, s’era limitato a trasmettere tutto alla Cassazione, secondo la giurisprudenza corrente.
L’avvocato Cattarini: «Non ci sono elementi per paventare il legittimo sospetto»
L’avvocato Riccardo Cattarini, difensore di alcuni imputati, non condivide lo scenario alla base della richiesta di spostamento del maxi-processo amianto per “legittimo sospetto”. «La situazione è grave – afferma – perché se la richiesta di rimessione della questione ad altro giudice fosse accolta il processo dovrebbe essere rifatto, questa volta a Bologna. A me non pare che di questi problemi ce ne siano. La civilissima popolazione del nostro territorio non usa disturbare le udienze ed è rispettosissima delle istituzioni. Anche nelle udienze più combattute in Tribunale non c’è mai stato nulla che potesse far pensare a pressioni del pubblico sul giudice. Dubitare della regolarità del processo sin qui, e dell’imparzialità del Tribunale, è davvero opinione che non si può condividere. C’è invece una forte domanda di giustizia, sia dagli ammalati che da coloro che hanno perduto i loro cari sia da coloro che sono stati trascinati in una vicenda processuale durissima ritenendosi innocenti. La Cassazione ha comunicato che solo il 24 settembre deciderà se il processo si sia svolto in modo regolare o se dovrà essere ricelebrato daccapo. Quindi nessuna sentenza oggi a Gorizia, tutti dovranno attendere».
da Il Piccolo del 20 luglio 2013
Maxi-processo amianto, si teme l’azzeramento
Forte preoccupazione a Monfalcone per lo slittamento al 24 settembre della pronuncia della Cassazione che ha già causato il rinvio della sentenza
MONFALCONE È forte la preoccupazione per il rischio di veder saltare il processo-amianto, procedimento-pilota per il quale sono imputate 35 persone dell’ex Italcantieri e i rappresentanti delle ditte appaltanti per la morte di 85 lavoratori dei cantieri. La Cassazione deciderà solo il 24 settembre sul “legittimo sospetto”. E a complicare tutto il prossimo trasferimento del presidente Matteo Trotta. C’è delusione nel Monfalconese e nell’Isontino. La vicenda è già stata paragonata ad un secondo “caso Ilva”. Non manca il grande senso di incertezza, espresso dagli amministratori del Comune di Monfalcone, dai sindacati e dall’Associazione esposti amianto, costituitisi parte civile al processo.
Perchè è evidente la paura di ritrovarsi con «un pugno di mosche», ora che la Suprema Corte ha fissato l’udienza al 24 settembre per decidere in merito alla rimessione del processo in virtù della “legittima suspicione” richiesta dall’avvocato Alessandro Cassiani, difensore di Giorgio Tupini, nell’ultima udienza, il 24 giugno. Secondo il legale, il Tribunale di Gorizia non sarebbe nelle condizioni di pronunciare un giudizio sereno ed equilibrato.
Intanto il presidente Matteo Trotta è in procinto di lasciare Gorizia. Si teme che, qualora non intervenga una sorta di “proroga” o un “distaccamento” del magistrato, si debba comunque ricominciare da capo, con un altro giudice. Cgil e Aea lanciano un appello alla magistratura, affinchè Trotta possa portare a termine il suo compito. Il segretario provinciale della Cgil, Paolo Liva, spiega: «Uno dei nostri legali che ci rappresenta ha prospettato scenari pesanti. Per come stanno le cose, tutte le prospettive sono aperte. Può succedere di tutto. Tra l’attesa del pronunciamento della Cassazione, che avverrà solo il 24 settembre, il trasferimento del presidente Trotta e le inevitabili dilazioni dei tempi, c’è da temere che diventi impossibile arrivare alla sentenza del procedimento. Sembra di assistere a un secondo “caso Ilva”. È inammissibile ritardare la giustizia – continua il sindacalista – su una questione così rilevante come le morti di amianto. Beniamino Deidda, nel 2008, in qualità di procuratore generale presso la Corte d’Appello di Trieste, avviò la “corsia preferenziale” costituendo un pool di magistrati. In gioco c’è il diritto alla giustizia per i famigliari delle vittime, ma anche la necessità di un riconoscimento delle responsabilità di fronte a un territorio duramente colpito. È una questione sociale, per la quale una giustizia lenta diventa pericolosa, poichè finisce per normalizzare responsabilità che invece sono molto gravi».
Liva chiede quantomeno che il presidente Trotta «prenda in mano la situazione anche in qualità di presidente del Tribunale di Trieste». Il segretario della Cgil aggiunge: «Con i nostri uffici vertenze, anticipando i tempi avevamo intrapreso il percorso extragiudiziale per il riconoscimento del danno differenziale, un percorso più rapido, utile anche a raccogliere elementi probanti e spendibili per il processo penale. A questo punto, rischia di diventare l’unica forma di giustizia per i famigliari delle vittime e per il territorio». Chiara Paternoster, dell’Associazione esposti amianto, da parte sua osserva: «Esprimiamo forte preoccupazione per la decisione della Cassazione di fissare l’udienza in merito al “legittimo sospetto” solo il 24 settembre. Lo riteniamo molto grave, anche perchè ora il problema è che il presidente Trotta verrà trasferito. Qualora la Cassazione, come ci auguriamo, non accoglierà la rimessione del processo, resta il rischio, vista la dilatazione dei tempi, di un azzeramento del procedimento, dovendo nominare un altro giudice». Quindi aggiunge: «C’è da sperare che il Csm, o l’organismo preposto, comprenda la necessità di chiudere questo processo, per garantire la certezza del diritto alla giustizia». Paternoster confida, inoltre, che la Suprema Corte «dichiari infondata la paradossale eccezione sollevata in ordine al “legittimo sospetto”, avvenuta alla 91.a udienza, in un contesto di assoluta serenità, a fronte solo di una richiesta di giustizia da parte dei famigliari delle vittime. Famigliari che hanno sempre manifestato grande dignità e pazienza, considerati i meccanismi del sistema giudiziario».
Il vicesindaco Omar Greco esprime stupore e sgomento: «Il legittimo sospetto a mio avviso è palesemente infondato, è solo un modo per dilatare i tempi. È piuttosto squallido lo spettacolo al quale stiamo assistendo, di fronte alla portata della questione-amianto nel nostro territorio. Mi auguro che la Suprema Corte rigetti la richiesta di rimessione, poichè è impensabile il trasferimento del processo in altra sede. C’è poi il trasferimento del presidente Trotta ed il rischio che la sentenza possa slittare oltremodo, altro aspetto che mi irrita molto. Voglio sperare che venga, invece, data al più presto una risposta di giustizia».
da Il Piccolo del 19 luglio 2013
Amianto, nuovo stop per il processo
La Cassazione deciderà sul legittimo sospetto il 24 settembre. L’udienza fissata a Gorizia per martedì slitterà all’autunno
Nuovo rinvio per il processo-amianto. Imputati di omicidio colposo 35 persone tra i vertici dell’ex Italcantieri e i rappresentanti delle ditte appaltanti, per la morte di 85 lavoratori dei cantieri. Ieri la Cassazione ha fissato nella giornata del 24 settembre l’udienza per decidere in merito alla “legittima suspicione” sollevata il 24 giugno dall’avvocato Alessandro Cassiani, difensore di Giorgio Tupini, che aveva richiesto la rimessione del procedimento. La Suprema Corte dovrà stabilire se il processo potrà continuare, e quindi approdare a sentenza, oppure, invece, verrà annullato, con il trasferimento in altra sede, fuori dalla regione, e con altro giudice. Secondo Cassiani, il Tribunale di Gorizia non sarebbe nelle condizioni di pronunciare la sentenza in modo sereno ed equilibrato. La data del 24 settembre stabilita dalla Cassazione costringerà giocoforza a rinviare anche l’udienza fissata dal giudice Matteo Trotta per martedì. Il tutto in attesa di conoscere l’esito della Suprema Corte sulle sorti del procedimento che lo scorso 24 giugno sembrava ormai avviato alla sentenza. A questo punto, i tempi si dilatano. Quantomeno la successiva udienza al Tribunale isontino dovrà essere calendarizzata dopo il 24 settembre. Tenendo conto delle relative notifiche, tutto potrebbe slittare tra fine settembre e ottobre, se non oltre. Semprechè il procedimento goriziano venga “salvato” dal legittimo sospetto consentito dalla legge agli imputati per la ricusazione dei giudici. Intanto il giudice Trotta si prepara al trasferimento, previsto a fine mese. È possibile, tuttavia, che sortisca una “proroga” permettendo al magistrato di concludere il procedimento al momento ancora sub judice.
Intanto resta la spada di Damocle del rifacimento del processo qualora la Cassazione decida di accogliere l’istanza sollevata dall’avvocato Cassiani. Novantun udienze e oltre 500 testimonianze finite nel nulla, con il rischio-prescrizione. La richiesta di rimessione del processo era stata annunciata a inizio udienza, il 24 giugno, dal legale che aveva spiegato come le pressioni esercitate nei giorni precedenti, gli articoli dei giornali e la richiesta, poi respinta, del Procuratore capo della Repubblica di autorizzare riprese in video-conferenza tra l’aula del Tribunale e la sala conferenze del San Polo, per evitare eventuali problemi di ordine pubblico, non garantivano ai giudici serenità di giudizio. Contro l’istanza s’erano espressi il pm Valentina Bossi e gli avvocati delle parti civili. Trotta s’era limitato a trasmettere gli atti alla Cassazione, come da prassi procedurale.
Alberto Prunetti su Il Manifesto del 17 luglio 2013
AMIANTO – Per gli avvocati di Fincantieri il processo va spostato: i giudici non sono sereni
Nuovo rinvio per la fibra killer
Negli stabilimenti il colore della pelle e la nazionalità assegnano il posto di lavoro In alto gli italiani, a seguire gli altri. Gli ultimi sono bengalesi. Tutti a rischio di tumore
Monfalcone è sul mare ma il litorale se l’è mangiato il cantiere. Non ci arrivi a toccare le onde, ti tocca prendere l’auto e spostarti di qualche chilometro. Per vedere il mare devo salire sulla terrazza della sede dell’Anpi, che era un tempo il dopolavoro operaio dello stabilimento della Solvay. Ma anche da lì, gli occhi cadono prima su un supermercato e poi sulla ciminiera della centrale a carbone dell’Enel, infine sulle gru enormi della Fincantieri. Il mare è lontano, a Monfalcone, quanto la giustizia. Sembra a portata di mano, eppure c’è sempre qualche grande stabilimento a mettersi di mezzo.
Provo a avvicinarmi a piedi.
Cammino per il quartiere operaio di Panzano, a fianco del cantiere navale che ha visto morire per tumori correlati all’amianto così tanti operai. Tra i coibentatori, su 120 ne sono sopravvissuti solo quattro. Mi stupiscono i cocci di vetri rotti che sormontano il muro perimetrale. Mi chiedo se in passato quei cocci rotti siano bastati a impedire alle fibre killer di scavalcare il muro. Come il vetro tagliente, i mattoni dividono il cantiere dalle casette ordinate di chi ci lavora dentro: il rione Panzano è un esempio di villaggio operaio all’interno di una company town, la piccola città di un grande cantiere. Luca, la mia guida dell’Unione Sindacale Italiana, mi porta a visitare il monumento alle vittime dell’amianto, che sorge in una piazzetta nel cuore di Panzano. Riporta una frase emblematica di Massimo Carlotto: «Costruirono le stelle del mare/ li uccise la polvere/ li tradì il profitto». Carlotto e altri scrittori, artisti e intellettuali hanno sostenuto la lotta degli esposti e dei familiari delle vittime dell’amianto, ma rimane tanto da fare perché il nemico è ovunque: basta alzare gli occhi dal monumento e subito dietro vedo spuntare, irridente, una lastra di eternit. L’assassino è ancora sul luogo del delitto e va al funerale delle vittime. Sorrido amareggiato. Attraverso la strada, provo a visitare il museo della cantieristica monfalconese, ma a quell’ora è chiuso. Mi infilo allora in un bar di operai e condivido con alcuni compagni uno spritz, che da queste parti non è altro che un leggero vinello bianco allungato con l’acqua minerale fresca. Sfoglio i giornali locali mentre il gestore pela le patate col sigaro in bocca.
Un articolo riporta un commento, alla vigilia della sentenza Italcantieri, della signora Romana, la presidente dell’Afeva di Casale Monferrato. È anche lei parte di questa terra perché è nata a Salona d’Isonzo e si è trasferita a Casale solo perché con i nuovi confini, nel dopoguerra, lo stabilimento Eternit dove lavorava suo padre era rimasto in Jugoslavia. Non è un caso che in Slovenia, a Nova Gorica, ci sia un sindacato specifico che tutela gli esposti all’amianto. Sono tantissimi in quel paese.
Suona la sirena, è finito il turno. Esco immediatamente per vedere aprirsi i cancelli dello stabilimento. Per strada spuntano una miriade di operai in bicicletta e a piedi. Ci sono colori diversi, sia per la pelle che per le tute. I due elementi tra loro sono correlati: una miriade di subappalti con ditte private, ognuna con una sua tuta, e la presenza di una divisione del lavoro in termini di classe. Una scala che pone una classifica degli sfruttati dove la divisione non è solo di classe: sotto gli italiani, a fare i lavori più nocivi, ci sono gli istriani e in fondo a tutti i bengalesi.
La sera ci troviamo per parlare d’amianto e fare il punto della situazione con Chiara Paternoster dell’Associazione Esposti. Ci diamo appuntamento alle 8 del mattino di martedì 25 giugno. Arriviamo a Gorizia da Monfalcone in pulman. Purtroppo siamo in pochi e le poltroncine sono in gran parte vuote. Altre persone sono comunque già arrivate con i loro mezzi. Ci ritroviamo nella parte del tribunale che ospita il pubblico. Cinquanta persone, in gran parte anziani, molte vedove, qualche nipote che forse non ha mai conosciuto il nonno. Con qualche minuto di ritardo l’udienza si apre. Il giudice fa l’appello, gli imputati, perlopiù dirigenti della vecchia Italcantieri, che gestiva i cantieri navali prima della Fincantieri, sono tutti liberi e contumaci. L’avvocato di uno dei vertici dell’azienda prende subito parola mettendo le mani avanti. Comprende il dolore dei familiari ma… Attendo il colpo e non ci mette troppo ad arrivare. Le associazioni con i volantini, gli articoli, e i sit-in avrebbero creato un clima poco sereno che non metterebbe i giudici in grado di giudicare con tranquillità. Un clima che preoccupa e che può creare problemi di ordine pubblico, sostiene. Nel pubblico ci guardiamo allibiti. Io fisso quelle vedove, quei vecchi ammalati, quei nipotini tenuti in collo. Sono loro il problema d’ordine pubblico? L’avvocato va avanti. Chiede pertanto una remissione del processo. Una sorta di eccezione procedurale. Vale a dire spostare tutto armi e bagagli da un’altra parte, per ripartire da zero, per annullare la domanda di verità e giustizia di queste vedove e di questi bambini. A me sembra assurdo, mi vengono in mente quelle situazioni infantili, quando giocavamo a pallone: tu segnavi un gol ma te lo annullavano perché il pallone era sgonfio. Penso che i padroni sono come i bambini prepotenti: fanno le regole durante il gioco e le cambiano quando stanno per perdere.
I giudici si ritirano in aula di consiglio e non escono più. Passano due ore. Tanto, troppo tempo. Sono preoccupato. Telefono a mia madre, che vuole essere aggiornata: è stupita che nel telegiornale stavolta non abbiano detto nulla, al contrario del processo Eternit. Ma stavolta non si processano dei cattivi magnati stranieri, stavolta i padroni sono italiani, e sarà tutto più difficile, lei dico. Poi le racconto quel che è successo, le parole dell’avvocato sulla presunta lesione della serenità dei giudici. Lei mi stupisce con una riflessione perfetta nella sua semplicità: «i giudici non sarebbero sereni? Chissà quanto sono sereni i familiari degli operai!» Ha ragione la casalinga più del togato, anche stavolta. Che dovevamo fare? «Scusate se vi turbiamo col nostro malessere. Anche noi non siamo sereni». Andrebbe scritto in uno striscione e appeso in ogni balcone tra Monfalcone e Gorizia. Scusiate se siamo venuti al tribunale, ma non siamo riusciti ad andare al mare, perché a Monfalcone il mare è lontano.
Intanto andiamo a prenderci un caffè, parlo con un operaio dei cantieri navali in cassa integrazione. La legge Fornero l’ha fregato. Avrebbe dovuto già essere in pensione ma adesso servono più anni di contributi. Ha chiesto il prepensionamento anticipato per il lavoro a contatto con l’amianto ma per ora le cose non si sono messe bene. Scambio due parole con un altro attivista. Lui non è un operaio, ma il figlio di un operaio dei cantieri navali. E i cantieri gli hanno portato via il fratello, morto in un incidente. Altri operai mi raccontano che ai saldatori e ai coibentatori che lavoravano a contatto con la fibra assassina, l’impresa regalava mezzo litro di latte, «per digerire l’amianto». Il latte serviva solo per andare più spesso al cesso, all’amianto gli faceva un baffo.
Torniamo in tribunale appena in tempo. Rientra il giudice, annuncia l’aggiornamento dell’udienza al prossimo 23 luglio. Niente sentenza, per ora. Si attende anzi che la cassazione si pronunci per capire se il processo sarà spostato e quindi, di fatto, annullato. Ce ne andiamo con un senso di frustrazione: a Monfalcone il mare è lontano e la giustizia ha messo sul piatto della bilancia mezzo litro di latte. Non so se basterà a digerire questa giornata ingiusta.
Marzo 17th, 2017 — General, OGM
dal Messaggero Veneto del 22 luglio 2013
Bruciato mais Ogm a Tomba
Il terreno di Fidenato, leader di Biotech, preso di mira dai vandali. «La Regione mi paghi i vigilantes»
MERETO DI TOMBA. Stavolta sono stati i vandali a tentare di fermare Giorgio Fidenato e le sue coltivazioni Ogm. Ieri mattina l’imprenditore agricolo friulano si è recato sul suo campo di Mereto di Tomba, dove poco più di un mese fa aveva seminato mais biotech su una superficie di un migliaio di metri quadri, e ha trovato la spiacevole sorpresa: 30 metri quadri di terreno devastato da ignoti, che hanno estirpato le piante transgeniche. «Domani – assicura Fidenato –. denuncerò l’accaduto ai carabinieri, dopodiché sottoscriverò un contratto con l’Italpol per la vigilanza notturna dei miei campi seminati.
E naturalmente manderò la fattura da pagare alla Regione, che non fa nulla per garantirmi la sicurezza cui avrei diritto, visto che pago le tasse, vista la legge europea che consente le coltivazioni di Ogm e visto che la legge italiana mi obbliga a comunicare i luoghi in cui semino queste piante».
Se i vandali, che avrebbero agito nella notte tra venerdì e sabato, si sono limitati a distruggere una piccola porzione del campo coltivato a Ogm, probabilmente è perché sono stati disturbati dall’improvviso arrivo di altri agricoltori della zona, che avevano il turno d’irrigazione di notte sui campi adiacenti e che hanno quindi involontariamente messo in fuga gli ignoti devastatori prima che potessero portare a termine lo scempio.
«Ad armare la mano di queste persone – attacca Fidenato – sono le autorità pubbliche, che nonostante l’Europa consenta questo tipo di coltivazioni, fanno di tutto per mettere il bastone tra le ruote al progresso tecnologico. Si battono contro il mais biotech e poi si preparano a diffondere sul territorio regionale 80 mila litri di insetticida. Cosa di cui l’Ogm non ha bisogno, perché si difende resistendo in modo autonomo grazie alla sua struttura genetica, consentendo tra l’altro un notevole risparmio di fondi pubblici».
Marzo 17th, 2017 — General, Gruppo Anarchico Germinal
Dopo un oltre un anno di sofferenza, sabato 20 luglio Edvino ci ha lasciati.
La malattia che lo aveva colpito alla fine ha vinto, dopo avergli rubato oltre un anno di vita, dentro e fuori dagli ospedali. E’ strano pensare che non ci sia più, lui che c’era sempre, ad ogni manifestazione, che fosse davanti al CIE di Gradisca, contro la TAV o antimilitarista. Edvino era un compagno ingombrante, strabordante, a tratti persino fastidioso. Un 15enne in anfetamina nel corpo di un 50enne lo aveva definito una volta un compagno. Perché dentro aveva un’energia incredibile che a volte ti sopraffaceva.
Ricordiamo un episodio di tanti anni fa, forse era il 2002, il corteo ad un anno dal G8 di Genova. Ci si era trovati alle 5 di mattina in p.Oberdan per andare poi a prendere il pullman a Portogruaro: noi tutti eravamo assonnati e silenziosi per la levataccia e poi arriva lui, parlando ad alta voce e gesticolando al suo solito, con un piglio che pareva pieno pomeriggio.
Edvino usava questa sua energia per promuovere mille iniziative: concerti per la pace, conferenze, presidi…spesso da solo o quasi, perché non aveva tempo per stare dietro ai tempi di un lavoro collettivo. Se voleva fare una cosa la faceva senza chiedersi se era il caso, se aveva i mezzi o il tempo: la faceva e basta, perché era fatto così. Questo lo aveva portato anche a fare dei buchi nell’acqua o a “sprecare” iniziative importanti che avrebbero potuto avere più partecipazione. Ma lui non si scoraggiava e andava avanti.
Collaborava con una miriade di gruppi e associazioni, ma non faceva parte veramente di nessuna di queste realtà. Edvino era troppo estroverso per stare in una sola situazione; di certo però aveva i suoi interessi principali: i movimenti pacifisti e la solidarietà ai popoli oppressi (palestinesi in primis) erano i suoi campi di azione fondamentali. Edvino era parte integrante del “movimento” triestino e come tale era conosciuto.
Era molto vicino al movimento anarchico e al Germinal, nonostante tante sue collaborazioni filo-istituzionali o con aree decisamente moderate ai nostri occhi: ci chiedeva sempre come andavano le cose, comprava la nostra stampa e ed era sempre felice di vederci alle manifestazioni, dove spesso ci accompagnava per un pezzo per poi andarsene in giro. Edvino ci ha dimostrato la sua concreta solidarietà e vicinanza anche quando anni fa abbiamo iniziato l’avventura della ricerca e acquisto della nostra nuova sede in via del Bosco. Ed era veramente felice quando, nel maggio del 2012, ha partecipato al corteo di inaugurazione: ci sono tante foto di quella giornata, che lo ritraggono sorridente come sempre, le ultime prima che la malattia lo costringesse a casa.
Edvino era unico, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma con una caratteristica che sovrastava tutto il resto: era una persona generosissima, che dava tutto senza chiedere nulla in cambio.
Grazie per esserci stato.
Marzo 17th, 2017 — General, Val Susa
Riguardo agli avvenimenti in valsusa di questi giorni pubblichiamo questi articoli tratti dal blog anarresinfo.noblogs.org
Lunedì 29 luglio. Alle prime ore dell’alba scattano una dozzina di perquisizioni, tra Torino e la Val Susa, nelle abitazioni di attivisti dell’area autonoma che fanno riferimento al Comitato di lotta popolare di Bussoleno.
L’accusa è gravissima: associazione con finalità di terrorismo.
Nel mirino la passeggiata notturna al cantiere di Chiomonte del 10 luglio. Una serata come altre negli ultimi due anni di resistenza all’occupazione militare.
Già i commenti di politici e media dopo quella notte preludevano ad un possibile cambio di rotta nelle strategie repressive della Procura di Torino.
Sabato 27 luglio alcune migliaia di No Tav hanno aggirato i blocchi al ponte sul Clarea, guadando più in alto per raggiungere l’area della Centrale a Chiomonte.
C’erano tutti: giovani ed anziani, attivisti di tutti i giorni e sostenitori delle grandi occasioni. Il popolo No Tav unito sulle stesse strade dove il 19 luglio c’era stato l’accerchiamento della polizia, le botte, le torture, gli arresti. L’ambiguità nelle dichiarazioni del gruppo di amministratori che hanno partecipato alla marcia, ha consentito a Repubblica di titolare “I sindaci No Tav la spuntano. Marcia senza incidenti”. In questo modo i fautori del Tav hanno potuto buttare sul tavolo la carta comunicativa della divisione tra buoni e cattivi, facendo aleggiare il sospetto che l’anima moderata avesse sconfitto quella radicale. Nei fatti la passeggiata notturna del 19 luglio e la marcia diurna del 27 erano state indette dal movimento nel suo complesso e pubblicizzate nella medesima locandina
Due giorni dopo la manifestazione popolare di sabato 27, la Procura replica con le perquisizioni: in quasi tutte le case vengono sequestrati computer, telefonini, vestiti scuri, lampade frontali. L’accusa di terrorismo consentirebbe, in caso di arresti – per ora siamo ancora alle indagini – di ottenere lunghe carcerazioni preventive.
Nella conferenza stampa svoltasi nel pomeriggio nella sede della Comunità montana, il presidente, il democratico Sandro Plano, ha preso le distanze da ogni atto violento ed illegale dei No Tav, ma giudicato eccessiva l’accusa di terrorismo.
Il fronte istituzionale sta giocando da qualche giorno la carta della moratoria dei lavori per far ripartire un tavolo di trattativa sull’opera, alla luce delle titubanze francesi e del diverso quadro di priorità che la crisi imporrebbe.
Il movimento, riunito in serata al campeggio di Venaus, ha deciso di partecipare al presidio indetto dai No Tav di Bussoleno per martedì 28 alle 21 nella piazza del municipio della cittadina.
Non si può dire che l’indagine, coordinata dai PM Andrea Padalino e Antonio Rinaudo, arrivi inaspettata. Le dichiarazioni fatte ai media sin da maggio, facevano presagire che la Procura giocasse la carta di un’accusa pesante come l’associazione con finalità di terrorismo. Un’accusa che potenzialmente potrebbe investire qualsiasi No Tav, al di là delle condotte specifiche che la Procura fosse in grado di provare. Come tutti i reati associativi, la consistenza del dolo non è data dall’aver partecipato direttamente a questa o quell’azione considerate “terroriste” ma dal mero appartenere ad un gruppo considerato tale.
Visto l’appoggio formale del movimento alle azioni notturne in Clarea, ai sabotaggi, ai blocchi, all’autodifesa, chiunque si dica No Tav e partecipi a Comitati, assemblee, campeggi, potrebbe essere accusato di associazione con finalità di terrorismo.
In Val Susa chi prova a seminare “terrore” tra la popolazione per spezzarne la resistenza è l’esercito occupante.
Sarà interessante verificare se questa svolta della Procura otterrà l’effetto voluto o finirà con il rivelarsi un boomerang.
19 luglio. L’estate No Tav, partita in sordina, sta entrando nel vivo. Alcune decine di tende sono piantate nella piana di Venaus.
Circa 400 No Tav partono da Giaglione lungo la strada delle Gorge per una notte di lotta al cantiere. Da alcuni giorni la Prefettura ha fissato i confini di una nuova zona rossa intorno alle recinzioni. I divieti non hanno mai fermato i No Tav, non lo fanno nemmeno questa volta. Protagonisti della serata sono soprattutto i solidali che, come ogni estate, sono accorsi in Val Susa. Alcuni percorrono di notte i sentieri per la prima volta: la serata è molto scura, le nubi coprono la luna quasi piena.
La polizia è fuori dalle recinzioni, schierata oltre il ponte sul torrente Clarea: all’arrivo dei primi No Tav partono le cariche. La A32 anche questa volta è stata chiusa. Dieci blindati la percorrono con i lampeggianti spenti e si fermano sul viadotto nei pressi del cancello che immette sulla strada delle gorge. Altre volte i militari avevano scelto questa posizione per sparare dall’alto lacrimogeni sui manifestanti imbucati nel sottopasso della A32. Questa volta, dopo i gas avanzano le truppe, che spezzano in due in manifestanti, intrappolandone circa 150 nella zona dei Mulini. Un punto molto pericoloso per una manovra che non lascia vie di fuga: da un lato la gorgia scende brusca, dall’altro c’é una zona di vigne abbandonate, franosissima.
Nel buio piovono le manganellate, il gas soffoca ed acceca, molti gridano in preda al panico, cercando di inerpicarsi sul costone, scivolando in mezzo alle pietre che rotolano.
La polizia fa il suo bottino: 9 no tav vengono presi e portati nel cantiere. Lungo il tragitto botte, insulti, colpi di manganello. Un’attivista pisana, Marta, viene colpita in faccia da una manganellata che le spacca il labbro superiore, mentre gli eroi dell’antisommossa la palpeggiano tra le gambe, le toccano i seni, la insultano. Un ragazzo di 17 anni sviene per le botte e si ritrova nel fortino con fratture e la faccia piena di sangue. Gli uomini in divisa mirano sempre al volto, per nascondere sotto un velo rosso lo sguardo e l’umanità di chi lotta perchè immagina un mondo diverso da quello in cui siamo tutti forzati a vivere.
Gli arrestati vengono tutti percossi con violenza anche dopo l’arresto: trascorreranno ore prima di essere portati in ospedale e, di lì, alle Vallette. Le loro storie, raccolte nelle ore e nei giorni successivi, sono normali storie di tortura.
Per chi riesce ad allontanarsi comincia una lunga marcia notturna, nel silenzio dei boschi che nascondono i No Tav dalla caccia dei poliziotti che li braccano. Chi era riuscito a sfuggire alla trappola torna a Giaglione. Qualcuno si massaggia un braccio, altri hanno la testa che sanguina, altri ancora una commozione cerebrale e una caviglia rotta. Comincia la spola per portare i feriti più gravi all’ospedale. Il lento e duro ritorno dei No Tav termina all’alba. Chi arriva, sfinito, trova i propri compagni che attendono da ore. I primi racconti descrivono la violenza della polizia e la solidarietà che prevale dopo il panico, nel mutuo appoggio tra i boschi: un goccio d’acqua, qualcosa da mangiare che viene condiviso tra tutti.
Il giorno dopo il campeggio di Venaus sembra un ospedale da campo: chi zoppica e chi esibisce vistose fasciature, bende in testa, cerottoni, ingessature. Il bilancio finale è di 63 attivisti feriti. Anche la polizia sostiene che sarebbero una quindicina gli uomini e le donne in divisa feriti e contusi.
La questura nella sua conferenza stampa recita un copione ormai consolidato. Vengono esibite maschere antigas, qualche petardo, qualche bastone, il solito “mortaio”. In bella mostra c’é il bottino di una guerra in cui non vengono mai mostrati i manganelli insanguinati, i fucili che sparano i gas, le maschere dei poliziotti e dei carabinieri, i bossoli dei lacrimogeni. Nei confronti degli arrestati vengono formulate accuse durissime: resistenza, violenza, porto di armi da guerra.
Martedì 23 luglio il GIP convaliderà gli arresti e disporrà i domiciliari per sei No Tav e l’obbligo di firma quotidiano per il settimo. Gli altri due fermati nella notte del 19 erano stati denunciati e rilasciati a piede libero all’alba del 20 luglio.
Il giorno dopo il senatore democratico Stefano Esposito scriverà sul suo blog indicando un esponente del comitato No Tav di Bussoleno come mandante del tentato assalto al cantiere. Già nei giorni precedenti aveva accusato il settimanale anarchico Umanità Nova di incitare alla violenza, per un articolo scritto da Maria Matteo, titolato «soldi e sabotaggi». Non pago Esposito arriverà a sostenere che l’attivista pisana molestata pesantemente durante l’arresto aveva mentito e si era meritata gli otto punti necessari a rattopparle il labbro spaccato.
La mattina del 20 luglio tra chi tornava alla propria vita dopo la notte in Clarea, qualcuno avrà ricordato che 12 anni prima, in luglio sin troppo assolato, un carabiniere aveva sparato in faccia ad un ragazzo di 23 anni.
Il 23 luglio una fiaccolata percorre le vie di Susa. Il corteo – 2000 persone – era aperto dalle donne solidali con Marta, la No Tav pisana ferita e molestata sessualmente da alcuni poliziotti dei reparti antisommossa il 19 luglio. I No Tav hanno sostato lungamente di fronte all’hotel Napoleon, che ospita carabinieri di stanza alla Maddalena, di fronte alla pizzeria Mirò che ha stipulato una convenzione con gli occupanti, e al comune, schierato con la lobby del Tav. La manifestazione si è conclusa di fronte alla villetta del sindaco Gemma Amprino.
Sin qui la cronaca.
La polizia ha deciso di alzare il livello dello scontro. Una scelta pianificata e sin troppo prevedibile. La presenza nel cantiere di due magistrati come Padalino e Rinaudo, già titolari di numerose inchieste contro l’opposizione sociale in provincia di Torino, la dice lunga sulla pianificazione della mattanza del 19 luglio.
I media da settimane avevano ripreso a pubblicare articoli incendiari contro il movimento No Tav, accusato di essere ostaggio di professionisti della violenza, di aver ceduto il campo agli specialisti venuti da tutta Europa per fare la guerra allo Stato.
Tra gli articolisti che hanno commentato gli eventi in Clarea si è distinto Paolo Griseri, che definisce il rapporto tra il movimento valsusino e i solidali venuti da fuori come una sorta di outsourcing degli scontri più duri. Un’esternalizzazione consensuale, una sorta di patto tra gentiluomini. Va dato atto a Griseri di avere l’onestà intellettuale di non sostenere la tesi della divisione tra buoni e cattivi, che viene sempre smentita dai fatti. Ogni volta un’assemblea popolare, una manifestazione con grandi numeri, una marcia di tutti al cantiere, hanno dimostrato l’inconsistenza di un’argomentazione che ha più il sapore della speranza che serietà nei fondamenti argomentativi.
Più pragmatico di Griseri, Numa punta su una tesi intermedia: la perdita di controllo del movimento valsusino e un accordo – cui regala anche il nome suggestivo di «Patto del Cels» – tra anarchici ed autonomi, separati su tutto ma uniti nel perseguire attacchi violenti.
Significativo che la maggior parte dei commentatori abbiano minimizzato, talora censurato e persino negato le violenze subite dai No Tav.
Un mondo in bianco e nero, sostanzialmente asservito alla lobby del Tav. Nulla di strano. L’informazione è oggi uno dei pilastri nella costruzione del consenso intorno a scelte non condivise. La criminalizzazione e l’isolamento dell’opposizione riescono meglio se le scelte disciplinari più dure vengono sorrette da un buon lavoro di propaganda.
Proviamo a mutare prospettiva. Al di là dei fatti che abbiamo provato a ricostruire e della valutazione che ne hanno dato politici e media.
C’è una domanda che il movimento No Tav non può eludere. Perché il governo, il prefetto, la polizia hanno ritenuto fosse possibile un’accelerazione repressiva? Anche i giornali hanno scritto di una sorta di cambio di strategia.
Nelle tante riunioni tenutesi in questi giorni molti ipotizzavano che da un lato la compagine governativa che sostiene il Tav sia oggi più forte che in passato, altri hanno puntato l’indice sul sempre più scarso entusiasmo del governo francese verso la Torino Lyon.
Nessuna di queste ipotesi ci pare convincente, perché in Italia le maggioranze a favore del Tav sono sempre state forti e le esitazioni della Francia non sono certo una novità.
La posta in gioco – non certo da oggi – va ben al di là della torta Tav. Non è più solo una questione di treni: in ballo c’é il disciplinamento di un movimento popolare che non si è mai rassegnato all’occupazione militare. I No Tav non si sono mai arresi. Mese dopo mese, sin dallo sgombero della libera repubblica della Maddalena, ci sono state azioni di contrasto, serate informative, presidi, blocchi, occupazioni dell’autostrada e sabotaggi. Il movimento No Tav non ha mai voluto trasformarsi in impotente testimone dello scempio, limitandosi alla denuncia delle sciagure senza far nulla per impedirle.
Nonostante gli arresti, i feriti, i processi, i fogli di via, le violenze della polizia, nonostante il continuo tentativo di dividere i buoni dai cattivi, i No Tav hanno resistito.
Va rilevato che il cambio di passo avvenuto nella notte del 19 luglio riguarda solo l’ultimo anno. Prima, dall’assedio del 3 luglio 2011 al primo campeggio di Chiomonte, dalla mattanza dell’8 dicembre 2011 in Clarea, alle feroci cariche in autostrada del 29 marzo 2012 i governi di turno non si erano certo sottratti al dovere pedagogico di imporre ai resistenti numerosi corsi accelerati di dottrina dello Stato. Corsi molto utili e formativi per i No Tav. Certo non tutti partecipano alla lotta per «fare la guerra allo Stato», tuttavia grazie alla violenza dispiegata in questi anni molti hanno migliorato le proprie conoscenze sulla democrazia reale. In futuro i peggiori incubi dei nostri avversari potrebbero persino avverarsi.
Nell’ultimo anno i governi hanno puntato sulla rassegnazione, sull’accettazione del fatto che i lavori per il tunnel geognostico sono cominciati davvero, che le azioni al cantiere sono inutili, perché l’azione preventiva delle forze dell’ordine rende pressoché impossibile raggiungere il cantiere. Dopo la prima passeggiata notturna dell’estate 2012 l’azione della polizia è stata rivolta a chiudere ogni accesso, obbligando i manifestanti a lunghissime camminate nei boschi per riuscire solo a tratti ad avvicinarsi alle reti.
Su di un altro piano, le azioni di contrasto dell’occupazione militare, di sabotaggio collettivo delle ditte collaborazioniste, di intralcio dei lavori del cantiere con blocchi e con il presidio a Chiomonte non hanno mai avuto lo slancio necessario a fare massa critica.
La risposta di alcuni ad una situazione frustrante sono state le azioni notturne a sorpresa contro il cantiere e, successivamente, anche otto sabotaggi a mezzi delle ditte fuori dal cantiere.
Il movimento No Tav in un’assemblea popolare ha deciso di appoggiare la pratica del sabotaggio diretto alla distruzione di beni materiali senza colpire le persone.
Una scelta giusta che tuttavia rischia di produrre nei fatti una divisione tra chi agisce e chi plaude le azioni. Come scriveva la nostra compagna nell’articolo che ha suscitato le attenzioni del senatore Esposito «I sabotaggi sono il segno tangibile di una tensione forte a non arrendersi ai giochi della politica istituzionale, ma se restano patrimonio di pochi, cui i più delegano la lotta, possono rappresentare il canto del cigno del movimento.
Occorre creare le condizioni perché i tanti che plaudono ma non partecipano in prima persona si impegnino direttamente nelle azioni. Il cantiere di Chiomonte è il luogo scelto dallo Stato per giocare con violenza la propria partita: sinora i governi e la polizia hanno sbagliato poche mosse, facilitati da un terreno che li favorisce.» Chiomonte è stata scelta per il cantiere perché era il posto ideale per fare la guerra. Un luogo lontano dagli occhi, dall’indignazione, dal passo di un movimento popolare.
Allo Stato serve la guerra, perché la guerra è l’ambito degli specialisti, allo Stato piace la guerra perché ha il monopolio formale e materiale della violenza. Lo Stato ha i mezzi per alzare il livello dello scontro. Quando il governo decide gli apparati repressivi eseguono con gran gusto gli ordini ricevuti.
Dopo un anno non facile per il movimento No Tav, troppo a lungo sedotto dall’illusione elettorale, lo Stato si sente più forte e lancia l’offensiva.
Oggi il governo non teme più un’insurrezione popolare in risposta alle violenze del 19 luglio. Sebbene sappia bene che il popolo No Tav appoggia le azioni, sa tuttavia che quest’appoggio è soprattutto morale. La materialità dello scontro divide chi pure resta unito sia sugli obiettivi sia sui mezzi per perseguirli.
La sfida difficile che il movimento No Tav deve affrontare è rimettere in pista tutti quanti. Qualcuno in prima fila, qualcun altro più indietro, altri ancora in fondo, ma insieme per far nuovamente lievitare la miscela di radicalità e radicamento che è la ricetta vincente dei No Tav.
Il prossimo anno dovrebbe partire la sfida per l’inizio del cantiere per il tunnel di base: in quell’occasione dovranno militarizzare il territorio, piazzando soldati, poliziotti e carabinieri, in mezzo alle case. Non avranno più il riparo di un angolo remoto come la Clarea, ma un luogo pieno di case, di gente. Ancora oggi, nonostante, non sia esplosa nei due anni precedenti, il governo non può sapere se di fronte ad espropri, camion, polizia in tutte le strade la risposta non sarà di resistenza e barricate. Non lo sanno ma ancora lo temono. Per questa ragione mirano a seminare la paura con le teste rotte, le gambe spezzate, le molestie, gli insulti, le calunnie. La notte del 19 luglio hanno chiuso i manifestanti in un budello senza uscita per dimostrare che sono in grado di controllare a piacimento il territorio, che possono gasare e pestare a pochi metri dal cantiere dove fervono i lavori. Non solo. In questo luglio la presenza dei militari è divenuta molto più visibile ed asfissiante: i carabinieri in hotel a Susa, invece che nelle stazioni sciistiche in alta valle, i continui posti di blocco sulle due statali, i controlli a tappeto sono il segno tangibile che lo Stato ritiene venuto il momento di mostrare nuovamente la propria forza.
Occorrerà molta intelligenza e una grande capacità di confronto per dare una risposta adeguata all’accelerazione decisa dal governo.
Il punto di partenza è il territorio. Sul piano politico e sociale sono tanti i nodi che stanno venendo al pettine: la crisi che sta costando lacrime e sangue ai più, mentre arricchisce i soliti pochi, consente di pensare a orizzonti di lotta più ampi, dove le alleanze tra i movimenti e il mutuo appoggio si estendano.
Le stesse articolazioni materiali del Tav si trovano ovunque sul territorio, offrendo larghi spazi di contestazione e lotta, capaci di coinvolgere tutti. Le lotte dure ma vincenti dei lavoratori della logistica hanno dimostrato che lo smistamento, la dislocazione e la circolazione delle merci è uno dei punti deboli in un’epoca in cui la gran parte del lavoro è asservito e ricattabile.
Queste lotte offrono anche al movimento No Tav numerosi spunti di riflessione su possibilità di azione sinora mai esperite sino in fondo.
Un accampamento/blocco di qualche centinaio di persone – uomini, donne, bambini, anziani, che piazzino tende, cucine da campo, campi da calcio, dandosi il cambio giorno e notte potrebbe impensierire seriamente i signori del manganello e del tribunale.
Tante piccole azioni, semplici e riproducibili, che inceppino la macchina dell’occupazione militare e del cantiere, che ha gangli e ramificazioni ovunque potrebbe – senza troppi rischi – creare grandi difficoltà a chi occupa, devasta, lucra sulle nostre vite.
Non c’è molto tempo. Come sempre occorrerà riflettere facendo e fare pensandoci su.
La forza dei No Tav è nel movimento popolare. Una pianta resistente ma delicata. È compito di tutti mantenerla viva.
(Questo testo è la sintesi del confronto e della discussione tra i compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese)
Si è svolta ieri l’udienza di convalida degli arresti dei sette attivisti No Tav fermati nella notte del 19 luglio durante una manifestazione di lotta al cantiere di Chiomonte. L’unico fatto positivo è la decisione di applicare la misura cautelare ai domiciliari per sei No Tav e l’imposizione dell’obbligo di firma quotidiano per il più giovane.
La Procura, nelle persone dei PM Rinaudo e Padalino, gli stessi che, fuori da ogni norma e consuetudine, si trovavano all’interno del cantiere la notte degli arresti e delle violente cariche della polizia, aveva chiesto il carcere per tutti.
Per il resto il GIP ha accolto in pieno la tesi dell’accusa che il mero possesso di limoni, malox, maschere antigas dimostrerrebbe la volontà di tutti i partecipanti alla manifestazione di voler attaccare le forze dell’ordine. Il ritrovamento di bastoni, cesoie e due bottiglie molotov completerebbe il quadro. In questo modo non solo si formulano accuse gravi come la resistenza e la violenza a pubblico ufficiale, ma anche quella di possesso di armi da guerra. Grazie all’uso abnorme ma ormai abituale del concorso morale, diviene automatico che ciascuno sia responsabile di tutto quello che accade.
Nei fatti quella che si combatte in Val Susa è una vera guerra con impiego massiccio di gas velenosi, pestaggi, torture e molestie sessuali. Chi la conduce possiede legalmente armi da guerra: pistole, manganelli, fucili per sparare i gas, oltre ad essere dotato delle migliori difese come scudi, caschi, maschere antigas.
Gli avvocati del legal team No Tav decideranno nei prossimi giorni se presentare istanza di riesame, ma è probabile che i sette attivisti mantengano le restrizioni loro imposte sin dopo la pausa agostana.
L’info di radio Blackout ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato del Team No Tav, difensore di uno degli arrestati, che ha annunciato la decisione del ragazzo di 17 anni ferocemente pestato nella notte del 19 luglio di sporgere denuncia contro i propri aguzzini.
Le ultime parole sentite dal giovanissimo attivista prima di svenire sono state “smettiamola altrimenti lo ammazziamo”. Dai referti emerge che gli hanno spezzato la mandibola e il naso, che ha il segno di uno scarpone sullo sterno e numerose altre ferite ed escoriazioni.
Ascolta la diretta con Eugenio
Nonostante la repressione, nonostante il persistente tentativo di dividere i buoni dai cattivi, la risposta del movimento contro la Torino Lyon non si è fatta attendere.
Circa duemila No Tav, in maggioranza valligiani, hanno preso parte alla fiaccolata che si è snodata ieri sera per le strade di Susa. Il corteo era aperto dalle donne solidali con Marta, la No Tav pisana ferita e molestata sessualmente da alcuni poliziotti dei reparti antisommossa durante la serata di lotta al cantiere di Chiomonte. I No Tav hanno sostato lungamente di fronte all’hotel Napoleon, che ospita carabinieri di stanza alla Maddalena, invitandoli ad andare via. Passando per le vie del centro si è fermato sia davanti ad una pizzeria che ha stipulato un contratto con gli occupanti, sia di fronte al comune, schierato con la Lobby del Tav. La manifestazione si è conclusa di fronte alla villetta del sindaco Gemma Amprino, che, come d’abitudine, non si è fatta vedere.
Marzo 17th, 2017 — CIE = Lager, General
Se ne sono accorti finalmente…
da Il Piccolo del 3 agosto 2013
L’assessore Panariti: il Cie di Gradisca è come un manicomio pre Basaglia
Duro giudizio dell’esponente regionale dopo la visita effettuata nel centro di identificazione ed espulsione assieme ad alcuni consiglieri Gli immigrati vivono in condizioni difficili e sono di fatto prigionieri nella struttura
L’assessore regionale al Lavoro, Loredana Panariti, ha presentato nella riunione di giunta una relazione sulla sua recente visita al Cie (Centro identificazione ed espulsione) di Gradisca d’Isonzo, efefttuata assieme ai consiglieri regionali Franco Codega, Silvana Cremaschi, Stefano Pustetto e Mauro Travanut. La Panariti ha descritto le condizioni degli ospiti parlando di “caldo soffocante”, “camerate/gabbie”, “cibo di scarsissima qualità”, condizioni di fatto di “prigionieri” per gli ospiti “trattenuti”, che sfociano in episodi frequenti di autolesionismo. «Ho riscontrato – ha detto l’assessore Panariti in giunta – più di una analogia con gli ospedali psichiatrici pre Basaglia: gabbie in condizioni di assoluta precarietà igienica e sociale, con annessa abbondante somministrazione di psicofarmaci. Dove sta la necessità di tanta repressione e di tanto degrado? Le spiegazioni addotte dal responsabile della gestione, abbondantemente insufficienti, vanno da presunti problemi connessi alla ristrutturazione della sede a questioni di regolamento e di incolumità». La Panaeriti ha chiesto che l’Amministrazione regionale intervenga verso il Prefetto e le autorità competenti affinché siano ripristinate le condizioni strutturali e igieniche che rispettino almeno i livelli minimi di dignità umana, attualmente gravemente violati. In seconda istanza la Panariti chiede un intervento del Parlamento per chiudere i Cie.
da Il Piccolo del 3 agosto 2013 Pagina 17 – Regione
«Il Cie come un manicomio pre Basaglia»
Panariti denuncia le condizioni di vita degli ospiti e sollecita l’intervento del Parlamento per chiudere il centro di Gradisca
I diritti violati Dalle gabbie agli psicofarmaci perchè tanta repressione?
GRADISCA Il Cie di Gradisca d’Isonzo assomiglia più a un manicomio dell’era pre Basaglia che a una struttura per ospitare gli immigrati in attesa di identificazione ed espulsione. Ne è convinta l’assessore regionale al Lavoro, Loredana Panariti, e lo ha detto a chiare lettere nella relazione presentata nell’ultima seduta della giunta regionale. La Panariti ha visitato nei giorni scorsi la struttura gradiscana assieme a quattro consiglieri regionali (Franco Codega, Silvana Cremaschi, Stefano Pustetto, Mauro Travanut), amministratori locali, esponenti politici e di associazioni. L’assessore regionale ha descritto le condizioni degli ospiti parlando di “caldo soffocante”, “camerate/gabbie”, “cibo di scarsissima qualità”, condizioni di fatto di “prigionieri” dei cosiddetti “trattenuti”, che sfociano in episodi frequenti di autolesionismo. «Ho riscontrato – ha relazionato l’assessore Panariti in giunta – più di una analogia con gli ospedali psichiatrici pre Basaglia: gabbie in condizioni di assoluta precarietà igienica e sociale, con annessa abbondante somministrazione di psicofarmaci. Dove sta la necessità di tanta repressione e di tanto degrado? Le spiegazioni addotte dal responsabile della gestione, abbondantemente insufficienti, vanno da presunti problemi connessi alla ristrutturazione della sede a questioni di regolamento e di incolumità». «Di fronte a una situazione come questa – ha aggiunto la Panariti – l’Amministrazione regionale deve intervenire con urgenza, verso il Prefetto e verso le autorità competenti affinché siano ripristinate le condizioni strutturali e igieniche che rispettino almeno i livelli minimi di dignità umana, attualmente gravemente violati». In seconda istanza, l’esponente di Sel ha chiesto «un intervento immediato del Parlamento per chiudere tutti i Cie». Una giudizio negativo lo aveva espresso anche Codega del Pd all’uscita dalla struttura gradiscana,«struttura che non solo non ha praticamente quasi nessuna utilità, ma si è trasformata in un luogo in cui spesso sono a rischio i più elementari diritti». «Le mense sono chiuse, gli ospiti mangiano nelle loro stanze e gli unici spazi di aria sono i cortili ristretti circondati da gabbie di ferro – rileva Codega -. Si è di fronte a un vero e proprio zoo: nessuno spazio comune, telefonate centellinate, cellulari sequestrati e contatto con l’esterno affidato a una carta telefonica di 5 euro ogni due giorni. Attività ricreativa inesistente. Ci sono disfunzioni organizzative pesanti: da due mesi le lavatrici non funzionano e vestiti e lenzuola o restano sporchi o vengono lavati a mano dagli stessi trattenuti. La consulenza legale registra ampie falle: per quattro giovani siriani non sono state ancora avviate le pratiche di asilo politico. E dopo 18 mesi in questa situazione verranno tutti rilasciati liberi.Che senso ha tutto questo», si chiede ancora Codega che come la Panariti sostiene che i Cie vanno chiusi sull’intero territorio italiano. Attualmente il Cie di Gradisca d’Isonzo, che per grandezza è il secondo in Italia, ospita 67 extracomunitari sui 240 posti disponibili. Per la loro sorveglianza vengono utilizzate 150 persone al giorno, carabinieri ed esercito. Di queste 67 persone, 20 provengono da altre carceri e 47 sono trattenute solo in attesa di identificazione. La gestione è affidata alla Connecting people, una cooperativa di Trapani. La presenza ridotta di extracomunitari è stata decisa dopo i gravi incidenti avvenuti nell’estate di tre anni fa quando avvennero nel giro di tre mesi una serie di rivolte con un totale di 60 evasioni e ingenti danni alla struttura. A fianco del Cie c’è il Cara, il Centro di accoglienza richiedenti asilo politico che invece di posti disponibili ne ha 138 che possono arrivare in caso di necessità a160. Attualmente nel Cara sono ospitati 150 immigrati.
«La giunta affronti il problema»
Appello firmato da Pd, Sel e M5S per garantire dignità agli immigrati rinchiusi
TRIESTE Un’azione urgente e decisa, necessaria per garantire il rispetto e la salvaguardia della salute di chi è trattenuto nel Cie. La chiedono con voce sola sei consiglieri regionali di Pd, Sel e Movimento Cinquestelle, firmatari di un’interpellanza rivolta alla giunta. Interpellanza che prende le mosse dalla criticità delle condizioni di vita degli ospiti della struttuta, toccata con mano da Silvana Cremaschi, Franco Codega, Diego Moretti e Mauro Travanut del Pd, Ilaria Dal Zovo (M5S), Alessio Gratton e Stefano Pustetto. Quel viaggio nei giorni infernali del Cie ha permesso agli eletti di registrare «situazioni di fragilità e vulnerabilità psichica che richiedono assistenza non attuabile in un sistema di contenzione» e di verificare condizioni di vita «apparsi non tali da garantire il pieno rispetto della dignità e dei diritti delle persone». Abbastanza insomma per ritenere che «nei confronti del Cie di Gradisca si ponga un problema umanitario, di diritto e di efficacia», che non può più essere ignorato. Di qui l’appello all’esecutivo Serracchiani. «La giunta – si legge nel testo dell’interrogazione – deve intervenire nei confronti di Prefettura, Questura e altri enti competenti affinché siano garantiti il rispetto dei diritti delle persone e le condizioni di sicurezza per ospiti e operatori. Deve poi farsi parte attiva con il Viminale per il rispetto della Costituzione e per evitare che il Comune di Gradisca venga lasciato solo». Un appello per nulla condiviso dal leghista Massimiliano Fedriga. « «La giunta regionale – afferma – si occupi dei problemi della gente e non di andare a verificare se al Centro di identificazione ed espulsione fa caldo o meno»
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Di seguito riportiamo il report della visita dentro il lager della Tenda per la Pace e i Diritti.
Tenda per la Pace e i Diritti ha partecipato, con 4 membri, all’ingresso al CIE di Gradisca d’Isonzo organizzato il 26 luglio 2013 dalla Campagna LasciateCIEntrare
Qui di seguito e in allegato il nostro Report:
“SE QUESTO È UN UOMO”
Non è la prima volta che entriamo, sappiamo cosa aspettarci (e sappiamo che sarà sempre intollerabile), ma la visita al CIE di Gradisca del 26 luglio 2013 ha rilevato una situazione sempre più drammatica. L’ingresso, organizzato dalla Campagna LasciateCIEntrare, ha portato all’interno del CIE il parlamentare Nazzareno Pilozzi (SEL), il responsabile nazionale immigrazione di SEL, quattro consiglieri e un assessore della Regione Friuli Venezia Giulia, un assessore del Comune di Staranzano, due membri di ASGI, quattro di Tenda per la Pace e i Diritti e Gabriella Guido referente nazionale della campagna LasciateCIEntrare.
Capiamo già molto quando entriamo nel piccolo atrio che porta all’ala delle stanze o meglio alle celle.
Nell’atrio ci sono sei persone, di cui una di loro con le stampelle, una con la mano fasciata e un’altra con visibili tagli al collo. “Trasferitemi, vi prego fatemi trasferire in un altro CIE” –K. H. ci racconta di aver avuto problemi con altre persone. “Nessuna stanza mi ha accettato” ci spiega, facendoci vedere che la soluzione individuata dall’ente gestore Connecting People è stata farlo dormire da settimane in un corridoio, senza bagno e così ora non può nemmeno lavarsi.
Arriviamo al settore rosso, l’unico in funzione con 67 persone su 68 posti. Dalle camere da otto o dieci letti, con bagni, si accede solo a delle gabbie esterne.
È il luogo in cui stanno i trattenuti per tutto il giorno, tranne il breve tempo in cui, a piccoli gruppi, possono recarsi ai telefoni a muro dell’atrio, le volte in cui sono chiamati a recarsi negli uffici o condotti in infermeria.
Anche il cibo, di cui lamentano la scarsissima qualità, viene servito nelle camere poiché la mensa, rimessa a nuovo dopo i danneggiamenti delle rivolte di due anni fa, non viene utilizzata in quanto potrebbe rappresentare un luogo di assembramento e quindi portare ad un rischio di rivolta.
Non sono supposizioni nostre, sono le spiegazioni di rappresentanti di Prefettura, Questura e Connecing People, solo pochi minuti dopo aver ricordato che la struttura è stata costruita (a son di milioni e milioni di euro) per gestire 248 persone!
Le recinzioni esterne alle stanze da poco sono state chiuse anche con una rete metallica sopra le teste: “Questo è il cielo che vediamo noi” dice un giovane guardando verso l’alto.
L’angoscia ci prende quando l’unica immagine che la mente trova è quella delle gabbie di uno zoo…e quasi ci sforziamo a guardare bene perchè forse ci stiamo sbagliando, no, non ci sbagliamo, non ci sono animali dentro, ma uomini.
Iniziamo a parlare con le sbarre che ci dividono, un ragazzo il cui braccio è completamente segnato da tagli, si alza la maglietta
“Sto andando fuori di testa, non mi sono mai tagliato così e me ne vergogno. Voglio solo andarmene da qui, ho chiesto di essere rimpatriato, ho consegnato tutte le carte, ma il passaporto non ce l’ho e il consolato tunisino non mi riconosce come cittadino. Io 18 mesi qui non me li faccio, piuttosto mi ammazzo.”
Guardandoci attorno, ancora “fuori dalle gabbie”, vediamo due persone in sedia a rotelle, un altro con le stampelle e ancora tagli e cicatrici.
Chiediamo al responsabile della Prefettura che ci accompagna che ci aprano le celle, le porte si aprono e si richiudono subito alle nostre spalle.
Basta scambiare poche parole per capire chi è qui da più tempo e chi è arrivato da poco. Si distinguono gli sguardi di chi mantiene ancora un po’ di lucidità e vita da quelli spenti e assenti di chi assume psicofarmaci per riuscire a sopportare la detenzione.
Lo stesso direttore del CIE afferma che con il rinnovo dell’appalto (1 aprile 2013) – riconfermato alla Connecting People – in collaborazione con l’ASS 2, si sta regolamentando l’uso di psicofarmaci e ammette che in precedenza la somministrazione era massiccia, mentre ora riferisce di una riduzione di circa un terzo. “Li prendiamo, li prendiamo alla mattina e alla sera. Anche chi non ha mai preso psicofarmaci prima ,qui dentro li chiede. Però adesso se ne vuoi di più ti dicono che non ci sono”ci raccontano alcuni ragazzi.
Appare chiaro che l’uso strumentale degli psicofarmaci serve per sostenere una situazione di sempre maggiore svilimento umano. Non vi è una corrispondenza tra ciò che una persona ha fatto (un reato) e una pena (il carcere), perchè il CIE non è un carcere, ma in modo ancor più spietato vi è la detenzione e l’isolamento totale. Non è consentito possedere il proprio telefono cellulare e non si ha accesso neppure a libri, giornali e a qualsiasi materiale infiammabile. Per questa stessa ragione, le persone detenute non possono neppure avere copia del Regolamento Interno del CIE e nemmeno le informazioni legali sui Diritti dei trattenuti, ci rivela il direttore con una tale tranquillità che ci fa pensare che forse non si rende neppure conto della gravità.
S.A. è già stato trattenuto ai CIE di Roma, Milano e Caltanisetta. A Gradisca è arrivato 18 mesi fa, la sua detenzione dovrebbe concludersi ma gli hanno comunicato che, a causa di una fuga avvenuta a dicembre, il trattenimento inizierà da quando è stato ri-catturato.
Come fosse un gioco le cui regole cambiano a seconda dell’estro del momento.
Ancora da chiarire la presenza di 4 ragazzi che, secondo le carte redatte dalla Questura di Cagliari, dove sono stati soccorsi in mare, sono di cittadinanza siriana. La delegazione ha raccolto la loro volontà di fare richiesta di protezione internazionale e non si capisce perchè non gli sia stato possibile farla prima, dal momento che si trovano ormai da molti giorni al CIE di Gradisca.
Alla richiesta di spiegazioni il funzionario della Questura di Gorizia ha risposto che secondo loro non si tratta di siriani. Quando abbiamo evidenziato che non è questa la procedura prevista dalla legge, che va garantito il diritto d’asilo e lasciato l’accertamento a chi di dovere, è stato semplicemente risposto: “Ecco sì, così dopo vedrete che diranno tutti che vengono dalla Siria”
Sempre più i CIE ricordano la realtà dei manicomi, Istituzioni Totali che non svolgono la funzione per cui sono state create (si leggano tutti i dossier con i dati sulla “efficienza” rispetto a rimpatri/esplusioni, mentre siamo in attesa di ricevere quelli sul CIE di Gradisca), ma luoghi di esclusione di chi è ritenuto un peso sociale.
In questa nuova forma vi è forse una “finezza di tecnica”, che scade nel sadismo, le persone non vengono torurate direttamente, ma si creano attorno ad esse le condizioni affinchè lo facciano da sole…
Tenda per la Pace e i Diritti
Marzo 17th, 2017 — General, Mare
25/07/13
Rigassificatore, primo sì dai tecnici di Bruxelles
Appena cinque giorni fa il Tar del Lazio ha bocciato la richiesta con cui la società catalana Gas Natural, che ha progettato l’impianto di Zaule, aveva chiesto lo stop al decreto con cui l’ex ministro Clini aveva sospeso per sei mesi, fino al 18 ottobre, la compatibilità ambientale già concessa all’impianto. È stata rigettata la richiesta di sospensiva, mentre nel merito i giudici decideranno appena il 19 marzo 2014. Nella motivazione dell’ordinanza che ha dato torto a Gas Natural, i giudici amministrativi hanno rilevato tra l’altro che «anche l’eventuale adozione di una misura cautelare favorevole non sarebbe in grado di tutelare appieno gli interessi della ricorrente anche con riferimento al rischio di non essere incluso tra i progetti di interesse comunitario». Un rischio che è stato comunque evitato. di Silvio Maranzana Il rigassificatore «a Zaule o in altra località dell’Alto Adriatico» (questa la denominazione con cui è stato connotato), nonostante quella che sembra ancora la conclamata opposizione da parte della Slovenia, oltre che di tutte le amministrazioni del territorio triestino a partire dalla Regione Friuli Venezia Giulia, figura nella lista dei progetti prioritari in ambito energetico approvata dal Comitato tecnico dell’Ue in cui sono rappresentati funzionari ministeriali dei 28 Stati membri che si è riunito ieri pomeriggio a Bruxelles. A nulla sembrano essere valse dunque, almeno in questa fase, le prese di posizione contrarie, né il fatto che l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini abbia sospeso con un decreto della validità di sei mesi la compatibilità ambientale già data al progetto di Gas Natural nel 2009. La notizia dell’approvazione da parte del Comitato tecnico della lista, in cui non è nemmeno sparita la parola Zaule anche se affiancata dall’ipotesi di un’ubicazione alternativa sempre in Alto Adriatico, viene dal parlamentare europeo veneto Antonio Cancian dei Popolari europei, anche ieri in stretto contatto con la rappresentanza del governo italiano a Bruxelles. Non si tratta comunque di un sì definitivo, dal momento che la lista deve ottenere il varo finale in sede politica, sembra nella prima metà di ottobre, da parte della Commissione europea sede nella quale aggiungere qualche impianto, secondo le stesse affermazioni di Cancian «risulterebbe pressoché impossibile, meno arduo però cassarne qualcuno». Non è scontato però che la volontà politica a livelli nazionali prema nella direzione della cancellazione. Da fonti slovene infatti ieri si è diffusa la voce che lo stesso ministro dell’Ambiente di Lubiana sarebbe pronto a favorire il sì politico del suo Paese, a patto che l’impianto “scivoli” verso Venezia. E sono circolate ufficiosamente anche due date: il 20 settembre, termine dato a Italia e Slovenia per accordarsi tra loro, evidentemente sull’ubicazione, e il 2 ottobre per “notificare” l’accordo raggiunto agli altri Stati membri. Ufficialmente però il braccio di ferro continua. Secondo la tabella di marcia, l’esecutivo Ue dovrebbe prendere una decisione sulla lista delle nuove infrastrutture energetiche prioritarie entro i primi di ottobre. La disputa sul progetto del rigassificatore di Zaule viene discussa nell’ambito di gruppi regionali di lavoro incaricati di selezionare le infrastrutture considerate «chiave» e «di interesse comune», che secondo le nuove regole potranno beneficiare non solo di fondi Ue, ma anche di tempi ridotti per le autorizzazioni e di realizzazione. Quella di ierii era l’ultima riunione dei rappresentanti degli Stati membri prima della pausa estiva e sembra l’ultima in assoluto per definire, sempre in chiave tecnica, l’elenco dei progetti prioritari. Quanto al progetto di Zaule, la Slovenia avrebbe ribadito il no esplicitando anche dubbi per quanto riguarda una diversa ubicazione di interesse comune, ma sono state le stesse fonti comunitarie a chiarire poi ieri che «i negoziati fra Italia e Slovenia sono in corso e la Commissione europea cerca di facilitare un accordo».
23/07/13
Rigassificatore: la Slovenia ci ripensa e voterà per il no
di Mauro Manzin “Contrordine compagni”. La Slovenia cambia idea e domani a Bruxelles nella riunione che stabilirà i progetti energetici che otterranno finanziamenti comunitari prioritari voterà contro il rigassificatore di Zaule che fa parte del “pacchetto” che sarà in discussione. E poi un altro colpo di scena. Il ministro degli esteri sloveno Karl Erjavec dichiara da Bruxelles che nella lista dei progetti prioritari di interesse comune (Pci) dell’Ue non ci sarà il rigassificatore di Zaule. Erjavec dice di «poter tranquillamente affermare che il rigassificatore di Zaule non sarà nella lista e secondo informazioni, di cui dispongo, la Commissione europea non appoggia questo progetto». Si tratta, dunque, di un nuovo risvolto nella storia sulla votazione della lista sui Pci che si terrà domani a Bruxelles. Notizia che giunge a poche ore dalla decisone del governo sloveno. La nuova decisione dell’esecutivo Bratušek è stata confermata dal ministro per le Infrastrutture Samo Omerzel che ha così di fatto preso in mano il dossier fino a ieri nelle mani del “collega” dell’Ambiente. «Voteremo contro il rigassificatore di Zaule – ha annunciato il ministro – nonostante ci sia in discussione un pacchetto di sette progetti energetici molto importanti per la Slovenia». Precedentemente si era stabilito che la Slovenia si sarebbe astenuta dal voto salvo presentare alla fine una dichiarazione politica di contrarietà al progetto di Zaule. Come ha chiarito ieri Omerzel, il governo si è consultato anche con una serie di esperti del diritto comunitario e alla fine ha deciso per votare contro. «Con questo atto – ha detto il ministro – mostreremo chiaramente in quale misura la Slovenia sia contraria al progetto». Il problema che si è posto davanti alla Slovenia è anche un problema regolamentare. I singoli Paesi dell’Unione europea, infatti, daranno il loro voto all’intera lista dei progetti e non votano progetto per progetto, quindi l’astensione seppur successivamente motivata non avrebbe avuto, secondo l’esecutivo di Lubiana, lo stesso significato di un palese “no”. Fatto confermato dallo stesso Omerzel che, a seguito della consultazione con i giurisperiti, ha ribadito che l’astensione slovena avrebbe significato un problema. Una decisione molto sofferta quella di ieri del governo sloveno proprio per quei sette progetti del valore complessivo di 1,2 miliardi che Lubiana avrebbe gradito fossero inseriti tra le opere con priorità di finanziamento da parte dell’Ue. «Noi al ministero – ha precisato Omerzel – da tempo lottiamo perché il rigassificatore a Zaule non venga costruito e ci batteremo con tutte le forze perché tale progetto non vada in porto». Soddisfazione è stata espressa anche dal ministro dell’Ambiente Dejan Židan. «Siamo contro il rigassificatore a Zaule – ha detto – e questa nostra contrarietà vogliamo dimostrarla in tutti i modi possibili» e ha precisato che gli esperti di diritto comunitario hanno sostenuto che votando “no” domani a Bruxelles le possibilità di un successo in caso di causa giudiziaria aumentano e di molto. Il presidente dei socialdemocratici Igor Lukši› durante la riunione del collegio dei leader dei partiti di maggioranza alla presenza della premier Alenka Bratušek ha, da parte sua, ribadito come la contrarietà della Slovenia al rigassificatore di Zaule era stata espressa anche dal Parlamento nel 2009 per cui il governo a tale decisione è legato. Lukši› ha altresì bacchettato il governo che ha lasciato che l’Italia porti avanti il progetto fino ad arrivare a questa fase avanzata.
20/07/13
Rigassificatore, Gas Natural perde il primo round al Tar
di Silvio Maranzana Sarà discusso appena il 19 marzo 2014 il ricorso con cui Gas Natural ha chiesto l’annullamento del decreto ministeriale del 18 aprile con cui era stata sospesa per sei mesi l’efficacia della compatibilità ambientale rilasciata nel 2009 al rigassificatore di Zaule. Lo hanno deciso i giudici del Tar del Lazio che nel contempo hanno però rigettato la richiesta di sospensiva del decreto avenzata dalla stessa società catalana. Nel dispositivo dell’ordinanza che è stata depositata ieri, i giudici amministrativi rilevano comunque che «in caso di mancata adozione di ulteriori determinazioni da parte del Ministero dell’Ambiente, il provvedimento impugnato non potrà che perdere la sua efficacia a far data dal 18 ottobre 2013 (termine di scadenza dei 180 giorni indicati nel decreto numero 128 del 18 aprile 2013)». In sostanza, se entro il 18 ottobre il Ministero dell’Ambiente non avrà deciso un’ulteriore sospensione oppure non avrà ritirato la compatibilità ambientale, questa sarà nuovamente vigente. Nella premessa, il Tar rileva che «la vicenda, di estrema complessità, può trovare adeguata tutela solo attraverso la celere fissazione del merito» e anche che «in effetti sono già trascorsi 90 giorni dall’inizio dell’esecuzione del provvedimento impugnato tanto che, mancando solo 90 giorni di sospensione della Via (peraltro ricadenti nel periodo estivo), una tutela piena ed efficace non potrà che essere garantita attraverso la definizione del merito». Ma i giudici fanno anche riferimento alla seduta di Bruxelles di mercoledì prossimo in cui si deciderà se l’impianto verrà incluso tra quelli strategici e a livello europeo e sottolineano che «nelle more, anche l’eventuale adozione di una misura cautelare favorevole non sarebbe in grado di tutelare appieno gli interessi della ricorrente (Gas Natural, ndr.) anche con riferimento al rischio di non essere incluso tra i progetti di interesse comunitario da inserire nel primo elenco redatto ai sensi dell’articolo 3 del regolamento Ue 347/2013». I vantaggi che la società catalana avrebbe potuto trarre non sarebbero stati decisivi secondo i giudici perché «la sospensione cautelare dell’esecuzione del provvedimentto impugnato non comporta, anche in ragione della coincidenza con il periodo estivo, il conseguente (e immediato) riavvio della procedura di rilascio dell’autorizzazione da parte del ministero dello Sviluppo economico nonché la sua celere conclusione». In sostanza secondo al Tar, in attesa della sentenza nel merito, la parola ripassa al Ministero dell’Ambiente che «non potrà che adottare ulteriori determinazioni al riguardo non potendo rimanere sine die efficace il provvedimento di che trattasi, dovendo avere per la sua natura una durata temporale limitata e ben definita».
Marzo 17th, 2017 — General, Tracciati FVG
Messaggero Veneto MARTEDÌ, 06 AGOSTO 2013 Pagina 10 – Economia
La Tav va avanti sul tracciato originario
Si affievoliscono le speranze dei sindaci di un nuovo progetto di fattibilità. L’Italfer verso l’approvazione del preliminare
Gualtiero Pin I Comuni hanno tempo fino a Ferragosto per un parere: stiamo facendo sforzi enormi perchè non si prendano decisioni sulle nostre teste
Bortolo Mainardi Aspetto di sentire Serracchiani per discutere, nell’incontro da me richiesto, l’ipotesi avanzata dai sindaci della Bassa ancora a maggio
UDINE Il progetto 2010 della Tav tra Portogruaro e Ronchi Sud e tra Ronchi Sud e Trieste va avanti inesorabile. E questo riduce i tempi e le speranze dei sindaci friulani (19 sui 22 interessati dalla tratta tra Portogruaro e Ronchi sud) di veder prodotto uno studio di fattibilità su un’alternativa al proggetto di Italferr, un’alternativa che contempli prima di tutto il potenziamento della linea esistente. La notizia della prossima tappa l’ha data ieri il Comune di Monfalcone: «Italferr ha avviato per conto di Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) le procedure di approvazione del progetto preliminare delle tratte ferroviarie Ac/Av Portogruaro – Ronchi sud e Ronchi sud – Trieste del Corridoio plurimodale V, provvedendo, tra l’altro, all’invio dei documenti progettuali ai Comuni interessati e alla Regione. Entro settembre dovranno pervenire alla Regione il parere sulle integrazioni alla Via del progetto preliminare, presentate da Italferr Spa su richiesta della commissione nazionale di Via, e pervenute alla Regione lo scorso 19 giugno. I documenti sono stati trasmessi al Comune di Monfalcone il 15 luglio (ndr anche ai Comuni della Bassa), con richiesta di esprimersi entro 30 giorni». «L’incartamento è arrivato anche a noi – conferma il sindaco di Bagnaria Arsa, Cristiano Tiussi, che coordina gli altri municipi. Il progetto del 2010 va avanti ugualmente – aggiunge – anche se in ben 19 Comuni, nell’incontro avuto con il commissario straordinario Mainardi, abbiamo auspicato che ci possa essere uno studio di fattibilità che valuti un progetto alternativo ovvero il potenziamento della linea esistente. Parliamo di interventi che potrebbero essere fatti in pochi anni – mentre il progetto Italferr non sarebbe pronto prima di 20 anni -, con risorse limitate, impatto ridotto e che comunque non pregiudicherebbe in futuro, se i flussi di traffico lo richiedessero, la realizzazione di una linea ex novo. La presidente Serracchiani conosce la nostra posizione e contiamo che presto ci possa essere un incontro ufficiale con lei e il commissario per dare seguito alla volontà degli amministratori». Quanto alla tratta da Ronchi a Trieste: «In questi giorni abbiamo fatto uno sforzo enorme per arrivare al risultato nei tempi richiesti – commenta l’assessore di Monfalcone, Gualtiero Pin –, che come spesso succede non possono dirsi ragionevoli, visto che si tratta di elementi che necessitano di diverse e precise valutazioni. Riteniamo importante però che tali decisioni non siano prese “sopra la nostra testa”». Il commissario straordinario della tratta Venezia – Ronchi, Bortolo Mainardi (foto), che oggi sarà a Roma per fare il punto della situazione con il Ministro, si limita a dire: «Sto aspettando di sentire – spero a giorni – la presidente Serracchiani per discutere, nell’incontro da me richiesto, l’ipotesi avanzata dai sindaci della bassa friulana ancora a maggio. Solo se la Regione darà parere favorevole a quell’impostazione si potrà procedere con lo studio di fattibilità su un’ipotesi alternativa, come avvenuto in Veneto. Non è un segreto che il precedente assessore alle Infrastrutture (ndr Riccardo Riccardi) fosse contrario a qualunque studio su un’ipotesi alternativa. Se la nuova giunta non si esprimerà esplicitamente su questo tema, per il Ministero e Italferr continuerà a valere il progetto 2010». Tanto più che sulla testa pende la spada di Damocle del Cipe: se il comitato interministeriale approvasse il progetto preliminare già esistente sarebbe molto difficile, se non impossibile, tornare indietro. Martina Milia
da il piccolo
Italferr avvia le procedure di approvazione del progetto preliminare Documenti all’esame della Regione e dei Comuni interessati
Marzo 17th, 2017 — General, Gruppo Ecologia Sociale
NEWS: Domenica ore 17.00 riunione NO TAV
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—> concerto di canzoni antifasciste anarchiche e di lotta! <—
INDIGEN* DI TUTTO IL MONDO UNIAMOCI !
San Giorgio di Nogaro, Parco Comunale, 23 – 24 – 25 agosto
Evento facebook su Tepee in tal Parco
NEWS I popoli Indigeni, la solita retorica dell’ ONU, ma il problema è di un ‘importanza eccezionale. Il 6% della popolazione è un ottimo zoccolo duro da cui ripartire per rifondare l’abitabilità e la sostenibilità del Pianeta. ma siamo molt* di più del 6%. Indigen* di tutto il mondo uniamoci!!
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