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Marzo 17th, 2017 — General, Repressione diffusa
Rassegna stampa da Il Piccolo
10/05/12
Ucraina suicida, funzionario indagato
di Corrado Barbacini Il pm Massimo De Bortoli si è presentato ieri mattina in Questura con una decina di finanzieri e due poliziotti della Procura. Hanno perquisito le stanze del settore immigrazione al terzo piano ma anche l’ufficio di Carlo Baffi, il funzionario responsabile per le pratiche relative agli stranieri che ha gestito la tragica vicenda di Alina Bonar Diachuk. Si tratta dell’ucraina di 32 anni morta suicida il mattino del 16 aprile in una stanza del commissariato di Opicina, dove era stata rinchiusa illegalmente in attesa dell’espulsione. Baffi è ora indagato per sequestro di persona e omicidio colposo: è rimasto negli uffici della finanza in Procura fino a tarda sera. «La perquisizione è un atto dovuto a seguito dell’iscrizione nel registro degli indagati del dottor Baffi, che è assolutamente sereno avendo rispettato nell’esercizio delle proprie funzioni quanto di dovere», ha dichiarato ieri sera il difensore, l’avvocato Paolo Pacileo. Le ipotesi di reato per Baffi riguardano a oggi il caso di Alina, ma nel corso del blitz in Questura sono stati sequestrati 49 fascicoli in originale relativi ad altrettanti cittadini extracomunitari anch’essi, in attesa dell’espulsione, detenuti secondo la Procura illegalmente al commissariato di Opicina. Le stesse stanze dove è morta la giovane donna. Gli investigatori infatti al loro ingresso in Questura avevano già una lista con i nomi dei 49 stranieri evidenziati dall’agosto del 2011 fino allo scorso aprile, nomi acquisiti grazie alla documentazione sequestrata nei giorni scorsi sia negli uffici del Giudice di pace che al commissariato di Opicina. «Siamo a disposizione per fornire ogni elemento utile alle indagini relative al suicidio avvenuto all’interno di una struttura della polizia», ha dichiarato il questore Giuseppe Padulano. «Se abbiamo commesso degli errori», ha aggiunto «siamo di fronte a persone che hanno fatto il proprio dovere. Ho offerto alla Procura la massima collaborazione». Padulano ha sottolineato «la difficile situazione organizzativa» delle istituzioni «che si è cercato di fronteggiare». Nei weekend infatti non è in servizio un giudice che possa convalidare i decreti di espulsione. In quelle ore, secondo la Questura, gli stranieri non possono essere liberati. Ma per la Procura non possono essere nemmeno trattenuti. Un limbo, insomma, che si traduce però per gli stranieri in attesa di espulsione in una vera e propria detenzione. Alina Bonar Diachiuk era stata scarcerata in forza di un provvedimento del giudice Laura Barresi il 14 aprile dopo una sentenza di patteggiamento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per la legge, risultava libera. Eppure era stata “prelevata” come fosse un’arrestata da una pattuglia della squadra volante che, su disposizione dell’ufficio immigrazione diretto da Carlo Baffi, l’aveva portata dal Coroneo direttamente al commissariato di Opicina. Lì era stata “reclusa” nella stanza di controllo – che in realtà è un’altra prigione – in attesa del provvedimento del questore e dell’udienza davanti al giudice di pace che peraltro non era stata né fissata né richiesta. Lì, su una panca, davanti all’obiettivo di una telecamera a circuito chiuso, si è impiccata legando una cordicella al termosifone. La sua agonia – hanno accertato gli investigatori – è durata quaranta minuti. In tutto questo tempo l’agente che era in servizio di piantone al commissariato di Opicina, non è riuscito a dare “un’occhiata” al monitor posizionato a pochi centimetri da lui. Non si è accorto di quello che stava succedendo.
«Quell’automatismo cieco che non riconosce le fragilità»
«Proporzionalità e progressività delle misure, ricorso ad azioni coercitive nel minor numero possibile dei casi e, soprattutto, valutazione situazione per situazione, con particolare attenzione alle persone vulnerabili». Gianfranco Schiavone, componente del direttivo nazionale dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, snocciola uno a uno i principi fissati dalla direttiva europea 118/2005 in materia di rimpatri. Principi che a suo giudizio, nel caso di Alina Bonar Diachuk, forse non sono stati correttamente rispettati. «C’è un dato fondamentale in questa vicenda – osserva Schiavone -. La giovane ucraina versava in un’oggettiva condizione di vulnerabilità. Una condizione peraltro nota alla Questura visto che la ragazza aveva già avuto comportamenti autolesionisti durante la sua detenzione. Di conseguenza le autorità competenti, questore ma anche prefetto, avrebbero dovuto verificare attentamente la situazione di Alina, sottoponendola a visite mediche anche psichiatriche, per poi capire se le modalità di trattamento previste avrebbero potuto aggravare il suo stato di fragilità e optare magari per una sospensione o una dilazionare del provvedimento di allontanamento. Attenzioni, sia chiaro, che non sono lasciate alla discrezionalità e al buon cuore del singolo, ma sono espressamente previste dalle normative ». Nel caso della 32enne ucraina, invece, il sospetto è che l’unico criterio seguito sia stato quello dell’abbreviamento dei tempi. «Ciò che stupisce è l’automatismo dei processi di espulsione – continua Schiavone, da sempre in prima linea nell’attività dell’Ics, il Consorzio italiano di solidarietà -. Un automatismo cieco, che in alcuni casi può avere effetti tragici. Eppure la logica della direttiva europea è chiara: al rimpatrio forzato andrebbe sempre preferito il rimpatrio volontario, concedendo un termine per la partenza. Può capitare poi che, per evitare il rischio che la persona scappi e si allontani, si agisca diversamente, ma non può essere la regola. Non si può procedere automaticamente alle espulsioni forzate per scongiurare potenziali pericoli di fuga. Questa è una logica di polizia, comprensibile in alcuni casi ma di certo non in tutti. Non sicuramente quando di fronte ci sono persone in evidente stato di vulnerabilità». Di qui il monito finale. «Le pubbliche autorità triestine – conclude Schiavone – dovrebbero essere chiamate a riflettere, senza scorciatoie o semplificazioni, se i principi della direttiva europea sono stati rispettati e se qualcosa vada cambiato rispetto a quanto avviene nel processo di assunzione e attuazione dei provvedimenti di espulsione». (m.r.)
SABATO, 05 MAGGIO 2012
Suicida al Commissariato Almeno 100 casi “abusivi”
L’ucraina impiccata non avrebbe dovuto essere trattenuta così a lungo.
Ascoltati quattro poliziotti, acquisiti tutti i fascicoli relativi alle
espulsioni di stranieri
ORDINE DEGLI AVVOCATI
«Udienze di convalida, serve un giudice»
«Ferma contrarietà che le udienze di convalida dei provvedimenti di
espulsione siano svolte al di fuori dei luoghi deputati per legge, con
la verbalizzazione affidata ad appartenenti alle Forze di polizia». È
questo il punto nodale del documento diffuso ieri dall’Ordine degli
avvocati di Trieste e inviato al prefetto Alessandro Giacchetti, al
questore Giuseppe Padulano, al presidente del Tribunale Raffaele Morvay
e al coordinatore dei giudici di pace Francesco Pandolfelli. L’Ordine
degli avvocati, attraverso il suo presidente Roberto Gambel Benussi
(foto), spiega le ragioni della propria “ferma contrarietà” allo
svolgimento eventuale delle udienze di convalida delle espulsione
all’interno della Questura e con la verbalizzazione affidata a un
appartenente alla polizia. «La ratio delle legge è proprio quella di
affidare al controllo di un giudice, e quindi di un soggetto terzo, la
legittimità di un provvedimento a carattere amministrativo, nel
contraddittorio tra la difesa e l’Autorità che ha deciso l’espulsione.
Questa autorità sta in giudizio con propri funzionari appositamente
delegati. Appare pertanto evidente che, se l’udienza si svolgesse in
locali appartenenti a forze di polizia che devono poi eseguire il
provvedimento di espulsione e la verbalizzazione fosse affidata a
funzionari della stessa polizia, le parti non sarebbero più sullo stesso
piano, ma anche la terzietà del giudice verrebbe irrimediabilmente
compromessa nel suo apparire». L’Ordine degli avvocati esprime il
proprio rammarico per non essere stato convocato alla riunione
direttamente collegata al suicidio della giovane ucraina rinchiusa nel
Commissariato di Opicina.
di Claudio Ernè Quattro poliziotti che lavorano all’Ufficio immigrazione
della Questura sono stati interrogati ieri mattina dal pm Massimo De
Bortoli. Non erano accompagnati da avvocati in quanto sono stati
“sentiti” come testimoni. Uno alla volta sono entrati nello studio del
magistrato che – dopo il suicidio di Alina Bonar, la giovane ucraina
impiccatasi in una stanza del Commissariato di Opicina due settimane fa
– vuole fare chiarezza sulle modalità con cui vengono espulsi i
cittadini stranieri. Alina Bonar, secondo quanto è finora emerso, non
avrebbe dovuto essere trattenuta tanto a lungo in un posto di polizia.
Non avrebbe dovuto essere privata della libertà dopo che il giudice
Laura Barresi l’aveva fatta scarcerare dal Coroneo, dove la donna pochi
giorni prima aveva tentato di mettere fine per disperazione ai propri
giorni. Anche per questo suo conclamato stato di depressione psichica
Alina Bonar avrebbe dovuto essere o liberata nei tempi previsti dalla
legge o per lo meno sorvegliata attentamente. Invece sotto l’occhio
gelido di una telecamera si è impiccata e la registrazione video ha
detto che per almeno mezz’ora nessuno si è accorto del suo gesto
estremo. Non se n’è accorto nemmeno chi doveva periodicamente osservare
le immagini della stanza in cui era rinchiusa la donna, trasmesse su un
piccolo schermo. Nell’ambito di questa inchiesta in cui ieri sono stati
interrogati i quattro agenti dell’Ufficio immigrazione, sono all’esame
degli inquirenti più di cento fascicoli che raccontano la storia e le
vicissitudini burocratico-giudiziarie di altrettante persone che sono
state bloccate, trattenute, espulse e riaccompagnate alla frontiera nel
territorio affidato alla Questura di Trieste. Un pool di investigatori,
di cui fanno parte agenti di polizia e uomini della Guardia di finanza
coordinati dal pm Massimo De Bortoli, ha già acquisito nell’archivio del
Commissariato di Opicina tutti i documenti collegati a queste cento e
più espulsioni. Altrettanti documenti sono stati acquisti dallo stesso
pool di investigatori negli uffici di via del Coroneo del Giudice di
pace che per legge deve convalidare alla presenza di un avvocato
difensore, il decreto di espulsione emesso dalla Prefettura. Le
acquisizioni di questo centinaio di fascicoli consentiranno di
verificare se le procedure adottate fin dallo scorso agosto dalla
Questura, e in dettaglio dall’Ufficio immigrazione, hanno sempre
rispettato i tempi e le procedure scansite dalla legge. Per Alina Bonar
questo sembra non essere accaduto e il coordinatore dei giudici di pace,
Francesco Pandolfelli, sentito come testimone dal pm Massimo De Bortoli,
ha precisato che i suoi uffici erano pronti a organizzare l’udienza e a
convocare il difensore di Alina Bonar, ma nessun documento è mai
arrivato fino a lunedì mattina dalla Questura. L’inchiesta al momento è
protocollata come “atti relativi”. In sintesi non ci dovrebbero essere
ancora indagati. Certo è che se le ipotesi investigative dovessero
trovare conferma, la scelta ricadrebbe sull’arresto arbitrario o sul
sequestro di persona.
MARTEDÌ, 01 MAGGIO 2012
Agenti-cancellieri per gli immigrati: gli avvocati bocciano la proposta
Il presidente dell’Ordine Gambel Benussi: «Non siamo mai stati
interpellati. La soluzione non mi pare praticabile, chi è stato
scarcerato è libero a tutti gli effetti. Non è un detenuto»
Inchiesta aperta sulla morte dell’ucraina Alina Bonar
Dalla morte di Alina Bonar, alla riorganizzazione delle procedure di
espulsione. C’è un dranmmmatico filo rosso che collega queste vicende. I
motivi che hanno indotto al suicidio di Alina Bonar, la giovane ucraina
che due settimane fa si è impiccata all’interno del commissariato di
Opicina dove era stata rinchiusa dopo essere stata liberata dal giudice
Laura Barresi, è ora al vaglio del pm Massimo De Bortoli. Il pm ha
interrogato come testimone il giudice di pace Francesco Pandolfelli.
Negli atti inviati alla Procura dall’Ufficio immigrazione della Questura
risulta che «lo svolgimento delle operazioni veniva rinviato alla
mattina di lunedì 16 secondo le intese in vigore tra la Questura e il
locale Ufficio del Giudice di Pace». «Avremmo potuto esaminare il caso
già sabato mattina. Bastava avvisarci», ha dichiarato il coordinatore
del giudici di pace Francesco Pandolfelli
di Claudio Ernè Gli avvocati non ci stanno. Anzi sono stupiti ed
esprimono attraverso i loro organismi istituzionali tutte le perplessità
della loro categoria per il progetto messo a punto dal questore Giuseppe
Padulano che vorrebbe assegnare a un ispettore di polizia il ruolo di
cancelleriere nelle udienze dei fine settimana in cui viene decisa
l’espulsione di un cittadino straniero. Il presidente dell’Ordine
Roberto Gambel Benussi ieri ha sottolineato come nella riunione
convocata venerdì scorso in Prefettura, non fosse stato invitato nemmeno
un rappresentante dell’avvocatura, da sempre impegnata a difesa dei
diritti civili delle persone. «Nessuno ci ha avvisato anche se la legge
ci assegna un preciso ruolo nelle pratiche necessarie alle procedure di
espulsione degli stranieri. Un legale deve essere necessariamebnte
presente all’udienza convocata di fronte al giudice di pace o in
Tribunale. Quanto è stato proposto dal questore non mi sembra sia una
soluzione praticabile. Chi è stato scarcerato su ordine di un magistrato
e deve essere espulso, è comunque una persona libera e non un detenuto.
Avremmo voluto portare il nostro contributo tecnico e umano alla
riunione di venerdì, ma nessuno ci ha avvisato». Prima di dichiarare il
proprio disappunto per l’esclusione dalla riunione in Prefettura,
l’avvocato Roberto Gambel Benussi ha compiuto una ricognizione
all’interno della segreteria dell’Ordine. Ha cercato eventuali fax o
messaggi sfuggiti in un primo momento o giunti in ritardo. La
ricognizione non ha avuto esito. Gli avvocati intesi come Ordine non
erano stati proprio convocati. Poi il presidente si è incontrato con il
giudice Raffaele Morway, presidente del Tribunale. Al centro
dell’incontro proprio la bozza di soluzione messa a punto in prefettura
e la praticabilità sul piano della legge della soluzioni prospettate. Va
detto che l’udienza in cui il giudice di pace dovrebbe affrontare il
problema dell’espulsione, secondo quanto emerso venerdì, si svolgerebbe
proprio negli uffici di via del Teatro Romano e non nella sede
istituzionale del Giudice di pace, ospitata in uno stabile di via del
Coroneo. Inoltre, per rendere più spedito l’iter dell’espulsione, la
verbalizzazione delle udienze nei fine settimana, sarebbe affidata a un
ispettore di polizia e non più a un cancelliere. Questa proposta di
organizzazione è entrata anche nel mirino della Camera penale di
Trieste. Il presidente, l’avvocato Andrea Frassini, la ritiene poco
praticabile anche dal punti di vista legale dal momento che le udienze
devono essere celebrate nelle sedi istituzionali; in sintesi in un’aula
del Giudice di pace, non in un ufficio della Questura. «Non vedo perché
un agente di polizia, dipendente dall’esecutivo a cui deve comunque
rispondere, debba redigere il verbale quando per legge questo compito
spetta ai cancellieri. Se così fosse rischia di venir meno il momento
giurisdizionale e come avvocati non possiamo accettare soluzioni di
questo genere su problemi così complessi c sul piano dei diritti
civili». In effetti nemmeno nei momenti storici più bui del nostro Paese
le udienze si sono svolte negli uffici di polizia. Va aggiunto che le
Camere penali da tempo stanno pesantemente criticando la scelta del
Ministro della Giustizia Paola Severino che con un apposito Decreto ha
deciso che nelle celle di sicurezza dei Commissariati di polizia, della
caserme e Stazioni dei carabinieri nonché delle Questure, possono essere
trattenute persone fermate o arrestate. «Mancano i servizi igienici; a
livello sanitario la situazione è precaria. Non è chiaro come venga
fornito il cibo. I diritti costituzionali vanno rispettati senza cercare
scorciatoie o vie di comodo», ha concluso l’avvocato Andrea Frassini.
Marzo 17th, 2017 — Fascisti carogne, General
da Il Piccolo del 11 maggio 2012
Dirigente indagato, anche libri antisemiti
Busti e poster del duce sequestrati nella casa e negli uffici del responsabile dell’ufficio immigrazione della Questura
di Claudio Ernè
«Come riconoscere e spiegare l’ebreo». «La difesa della razza». «Mein Kampf». «La questione ebraica».
Sono questi i titoli di alcuni libri antisemiti a cui si sono trovati di fronte gli investigatori della Guardia di Finanza e della polizia che stavano perquisendo l’abitazione di Carlo Baffi, il dirigente dell’Ufficio immigrazione, indagato per omicidio colposo e sequestro di persona. Nello stesso appartamento era affisso un poster del duce.
Poco prima nell’ufficio del dirigente della Polizia di Stato, gli stessi investigatori diretti dal pm Massimo De Bortoli avevano trovato nella scrivania del dirigente indagato sei colpi di pistola in più di quelli che Carlo Baffi avrebbe potuto detenere; c’erano anche una vecchia sciabola, un fermacarte con impresso il fascio littorio e un piccolo cartello su cui, accanto all’indicazione “Ufficio epurazione”, era stampata la faccia di Benito Mussolini. Un gioco di parole: immigrazione – epurazione, anche se in quell’ufficio approdano storie terribili di uomini e donne costrette a rientrare in Paesi da cui erano fuggiti alla ricerca disperata di un futuro nell’Europa che a loro appariva scintillante.
Il poster del duce, la vecchia sciabola, il fermacarte con impresso il fascio littorio sono facilmente reperibili e acquistabili nei mercatini e su internet. Molti li collezionano per nostalgia ma anche per esorcizzarne l’antico potere. Icone del tempo che fu. Gli investigatori li hanno fotografati e posti sotto sequestro. Stessa sorte ha subìto un esiguo numero di libri di proprietà del vicequestore. Tra essi “Mein Kampf – La mia battaglia” di Adolf Hitler; la “Difesa della razza” di Julius Evola; “La questione ebraica” di Julius Streicker, l’editore-giornalista nazista di “Der Strumer”, condannato all’impiccagione al termine del processo di Norimberga per crimini contro l’Umanità. Tutti questi libri sono diffusi non solo in Italia e la loro pubblicazione ancora oggi suscita aspre polemiche. Li acquistano coloro che si riconoscono nelle liturgie del Terzo Reich. Ma c’è anche chi li compra nonostante la “maledizione” che li accompagna, per studiare dalle fonti originali un fenomeno che ha sconvolto l’intera Europa. Inoltre vietare la diffusione di un qualunque libro – per quanto l’autore diffonda idee criminali e di superiorità razziale – oggi non è più materialmente possibile, vista la presenza nelle “rete” di numerosissimi siti in cui questi testi sono disponibili.
«Non è reato detenere questi volumi» ha affermato ieri l’avvocato Paolo Pacileo, il difensore del dirigente di polizia. L’altra sera ha assistito nell’abitazione di Carlo Baffi alle varie fasi della perquisizione e del sequestro. Ha cercato di far desistere gli uomini in divisa dal prelievo dei testi “razzisti”; poi ha indicato altri volumi, appartenenti alla Storia del movimento operaio, in dettaglio testi marxisti e lenisti. Ne ha chiesto il sequestro ma i finanzieri e i poliziotti hanno proseguito nella loro azione.
da Il Fatto Quotidiano
Trieste, muore a 32 anni in questura. Indagato dirigente della polizia
Inchiesta sul capo dell’ufficio immigrazione del capoluogo giuliano, accusato di omicidio colposo e sequestro di persona. La giovane, infatti, non doveva essere trattenuta in cella di sicurezza, ma accompagnata al Cie. Nell’ufficio del funzionario trovato anche il cartello “Ufficio epurazione” e una foto di Mussolini
Il capo dell’ufficio immigrazione di Trieste Carlo Biffi è indagato per omicidio colposo e sequestro di persona per la morte di una donna di 32 anni avvenuta in una camera di sicurezza della polizia. Alina Bonar Diachuk era ucraina e aveva 32 anni: un mese fa era stata trovata con un cappio al collo al termosifone di una cella del commissariato di Villa Opicina, una frazione del capoluogo giuliano, dove era custodita da due giorni. Un episodio sul quale è stata aperta un’inchiesta della Procura che non solo si potrebbe estendere anche ad altri agenti della questura, ma anche ad altri aspetti: tra questi anche il cartello “Ufficio epurazione” attaccato all’interno dell’ufficio immigrazione e una foto di Benito Mussolini affissa nelle stesse stanze. Una storia raccontata dal Piccolo di Trieste e ripresa anche dal Manifesto.
La morte. Secondo i primi rilievi dei magistrati la Diachuk in realtà non doveva essere trattenuta in custodia dalla polizia. Era stata infatti accusata di favoreggiamento all’immigrazione e aveva patteggiato, così era tornata in libertà il 14 aprile: avrebbe dovuto essere trasferita nel Centro di identificazione ed espulsione di Bologna. Al contrario dopo la lettura della sentenza era stata sì prelevata da una pattuglia della polizia, ma trovata morta dopo due giorni nella camera di sicurezza. Sulla cella vigilava una telecamera di sicurezza ma per i 40 minuti di agonia della donna nessuno ha notato cosa stava accadendo (inoltre la ragazza aveva già tentato di togliersi la vita in carcere). Una serie di anomalie che ha spinto la magistratura ad aprire un’indagine.
Per capire qualcosa di più la Procura ha disposto la perquisizione degli uffici del commissariato e gli agenti si sono imbattuti nel cartello “Ufficio epurazione” e nella foto di Benito Mussolini. Ma non solo: nell’abitazione di Biffi sono stati trovati alcuni libri dal contenuto antisemita: “Come riconoscere e spiegare l’ebreo”, “La difesa della razza” di Julius Evola, “Mein Kampf” di Adolf Hitler, “La questione ebraica”. In Procura, al momento non intendono dare grande rilievo all’altro aspetto emerso durante le indagini, e cioè all’acquisizione di materiale di natura antisemita e di cartucce trovate in casa di Baffi durante una perquisizione. Materiale, quello documentale, giustificato da un sindacato di Polizia dal fatto che Baffi abbia lavorato anche alla Digos. “I rapporti con la Questura di Trieste – afferma Dalla Costa – sono sempre ottimi e collaborativi, tanto che il questore mi ha assegnato suo personale proprio per sviluppare questa indagine. Non c’è alcun ostruzionismo da parte della Questura”, ribadisce il capo della Procura.
Le indagini condotte dal pm Massimo De Bortoli devono verificare se in effetti la Diachuk fosse trattenuta in commissariato senza alcun titolo, se fosse chiusa a chiave dentro una stanza e se si sia trattato di un caso isolato, o, come ha confermato il procuratore capo Michele Dalla Costa, ci siano stati altri casi di stranieri trattenuti a Opicina senza alcun titolo. “Stiamo valutando decine di posizioni, a partire dal secondo semestre del 2011, per verificare se quello dell’ucraina sia stato un caso isolato o meno” conferma Dalla Costa.
Gruppi politici e realtà di movimento hanno indetto per oggi un presidio per protestare. Ci saranno, tra gli altri, Occupy Trieste, Sel e Rifondazione comunista.
da Contropiano
Martedì 15 Maggio 2012 10:33
Trieste: poliziotto nazista indagato per omicidio
Un dirigente dell’ufficio immigrazione della Questura di Trieste accusato di sequestro di persona e omicidio colposo per la morte di una ragazza ucraina. Persecutore di immigrati e fanatico fascista.
Mele marce e cuori neri: così potremmo riassumere una vicenda che sta mobilitando la stampa locale ma non ancora quella nazionale. Forse perché l’accostamento tra ‘malapolizia’ e infiltrazioni neonaziste nelle forze dell’ordine emerge così netto da spaventare più di una redazione. Eppure i media locali friulani e qualche blog hanno raccontato in questi giorni una vicenda che definire inquietante è dir poco.
Carlo Baffi, un dirigente dell’Ufficio immigrazione della questura di Trieste, è infatti indagato per omicidio colposo e sequestro di persona in relazione al “suicidio” di una ragazza, Alina Bonar Diachuk. La giovane, una ucraina di 32 anni, è morta il 16 aprile scorso in una cella del Commissariato di Villa Opicina, dove era stata rinchiusa illegalmente in attesa dell’espulsione. Un suicidio che era apparso da subito poco credibile, e che aveva fatto scattare una indagine che ha portato all’incriminazione di Baffi per sequestro di persona e omicidio colposo.
Gli inquirenti hanno così ricostruito la vicenda: Alina Bonar Diachiuk era stata scarcerata in forza di un provvedimento del giudice Laura Barresi il 14 aprile dopo una sentenza di patteggiamento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dal punta di vista giuridico la ragazza risultava libera, ma era stata “prelevata” come fosse in arresto da una pattuglia che, su disposizione dell’ufficio immigrazione diretto da Carlo Baffi, l’aveva condotta al commissariato di Opicina. Lì era stata rinchiusa – illegalmente – in una cella in attesa del provvedimento del questore e di un’udienza davanti al giudice di pace che però non era stata affatto richiesta dagli agenti. Lì, su una panca, davanti all’obiettivo di una telecamera a circuito chiuso, si è impiccata legando una cordicella al termosifone. Forse un gesto dimostrativo, una estrema denuncia da parte della ragazza che però ha portato alla sua morte, dopo quaranta minuti di agonia, senza che l’agente di guardia si premurasse di controllare il monitor sulla sua scrivania.
Durante le indagini gli inquirenti hanno sequestrato 49 fascicoli in originale relativi ad altrettanti cittadini extracomunitari anch’essi, in attesa dell’espulsione, detenuti illegalmente al commissariato di Opicina. Una pratica consolidata, un vero e proprio sistema che è assai improbabile che abbia avuto per protagonista il solo Baffi, che però per ora rimane l’unico indagato.
Come se non bastasse durante la perquisizione nella sua abitazione e nel suo ufficio, all’interno della Questura del capoluogo friulano, i finanzieri e i poliziotti hanno trovato busti e poster di Mussolini, e vario materiale di propaganda neofascista e antisemita. C’erano anche una vecchia sciabola, un fermacarte con impresso il fascio littorio e un piccolo cartello su cui, accanto all’indicazione “Ufficio epurazione”, era stampata la faccia di Benito Mussolini. Un accostamento, quello tra immigrazione ed epurazione, che dimostra quanto fosse cosciente e sistematica la persecuzione ai danni dei cittadini stranieri che gli capitavano a tiro in qualità di Dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Polizia di Trieste. Possibile che la sua attività fosse passata inosservata ai suoi colleghi?
Puntuale, come in ogni caso di “malapolizia”, è giunta una presa di posizione dell’Associazione Nazionale Funzionari di Polizia – dall’inquietante titolo ‘Solidarietà al collega Carlo Baffi e fiducia nella magistratura” – che invita gli inquirenti e i giornalisti a non associare il personaggio all’estrema destra, in quanto nella sua casa sarebbe stato trovato un non meglio precisato materiale di ‘estrema sinistra’, per altro ritenuto non interessante e non pertinente dai magistrati. Insieme a libri di chiaro stampo antisemita – «Come riconoscere e spiegare l’ebreo», «La difesa della razza», «Mein Kampf» – gli agenti avrebbero trovato anche «La questione ebraica» di Marx. Un libro che Baffi, ammesso che l’abbia letto, avrà trovato assai poco pertinente alle ideologie complottiste e paranoiche che caratterizzano l’estrema destra. Ma la differenza sfugge al sindacato di Polizia che scrive: “Ci auguriamo, dunque, che le indagini in corso possano essere svolte con la necessaria serenità, imparzialità e completezza, attraverso l’analisi e l’acquisizione di tutta la documentazione potenzialmente utile a ricostruire i fatti accaduti e la complessiva personalità degli indagati e non solo di parte di essa”.
Una dura presa di posizione è venuta sulla vicenda da parte delle istituzioni della comunità ebraica locali e nazionali. Che però considerano, come spesso avviene, solo alcuni aspetti della vicenda – l’antisemitismo – e non la denunciano per la gravità che essa acquisisce in un contesto di crescente complicità tra apparati di ordine pubblico e pratiche criminali ispirate alle ideologie del neofascismo e del neonazismo. Basterebbe citare il voto massiccio dei poliziotti ateniesi per i neonazisti di Alba Dorata o le complicità e le coperture accordate negli ultimi anni ai killer neonazisti della ‘banda del kebab’ in Germania, solo per citare alcuni esempi, per dar conto di un fenomeno che va molto al di là dell’aumento dell’antisemitismo pure giustamente denunciato dai portavoce delle istituzioni ebraiche rispetto alla vicenda triestina. Non fosse altro che per il fatto che le vittime del poliziotto fascista e xenofobo sono, per quello che finora è dato sapere, tutti cittadini stranieri.
Marzo 17th, 2017 — General, Rassegna stampa
Alina morì impiccandosi con il cordone del cappuccio della sua felpa alla finestra di una cella del commissariato di Opicina, sotto l’occhio vigile di una telecamera.
La sua agonia è durata quaranta minuti.
Alina era uscita dal carcere il sabato mattina dopo 10 mesi di reclusione, a seguito di una condanna congiunta a decreto di espulsione; Alina avrebbe dovuto essere “rispedita” in Ucraina, ma quel sabato uscì da donna libera, nessun decreto le era ancora stato notificato; ci avrebbero pensato il lunedì mattina.
All’uscita dal carcere però Alina trova ad aspettarla una volante che se la prende, cioè la sequestra, e la porta al commissariato di Opicina, la chiude in una cella e la lascia lì.
La sua morte è trasmessa dal monitor sul banco del piantone; nessuno la guarda.
Quando accadde, ne parlammo qui.
Era lo stesso giorno in cui qualcuno su un aereo riprese quei pacchi umani sigillati con il nastro adesivo, e quelle immagini sono state più eloquenti di qualsiasi accusa, per chi ha la coscienza ancora viva, naturalmente.
Le/i compagne/i che su Infoaction tengono la rassegna stampa, oggi hanno aggiunto la notizia della perquisizione all’abitazione del dirigente dell’ufficio immigrazione indagato per omicidio colposo e sequestro di persona per la morte di Alina.
Racconta il giornale locale di Trieste che quel dirigente si chiama Carlo Baffi, che nel suo ufficio il fermacarte è ornato dal fascio littorio e c’è un cartello con scritto “Ufficio Epurazione”, che nella sua casa ci sono libri come «Mein Kampf», «La difesa della razza». «La questione ebraica», «Come riconoscere e spiegare l’ebreo», e poi un poster del duce. Qui l’articolo.
Dovremmo stupirci di qualcosa? Noi no; nemmeno della linea difensiva che, abbiamo già capito, è il ritratto di un appassionato di storia …, che le fonti originali…, che i cimeli… i mercatini… ecc. ecc. bla bla, tutto inserito sulla consolidata strategia di sdoganamento del fascismo che si nasconde dietro l’esibizione di chicche storiche che tutt* sappiamo bene cosa significano ma che nessun* ha il coraggio di perseguire.
E la morte di Alina? Alina aveva già tentato il suicidio in carcere, e questa, per noi, è un’aggravante per chi l’ha messa nelle condizioni di provarci di nuovo e per chi l’ha lasciata morire.
Lei era in libertà, voleva prendere un treno e andare a Milano, non voleva tornare in Ucraina.
Ma a lei, a certe donne e certi uomini, succede questo, che possono essere presi, trattenuti, internati e rispediti là da dove sono venuti o a morire a mare o in qualche deserto di sabbia o di vita, non fa differenza.
Così Alina l’avevano destinata al cie di Bologna.
E se non fosse stata sequestrata, se la procedura fosse stata regolare, nulla comunque, sarebbe stato migliore anche se sarebbe stato legale, perché le leggi sui cie sono leggi orrende. Che dire delle persone che le hanno concepite e pensate? e di quelle che le dovrebbero applicare?
Oggi ci rimettiamo alla cronaca del “Piccolo”. Uno lo possiamo vedere, descritto nei particolari.
Marzo 17th, 2017 — CIE = Lager, General
Servizio del TG3 nazionale 13 Maggio 2012
Galleria fotografica del CIE (dal Messaggero Veneto)

Da Il Piccolo del 13/05/12
Ma al Cie di Gradisca non c’è nessuna allerta
di Luigi Murciano GORIZIA A partire da questa settimana il Cie di Gradisca vedrà aumentare la sua capienza di 136 posti. Ma almeno per ora non vi è alcuna evidenza che la struttura isontina possa rientrare in un piano d’emergenza per i temuti sbarchi di clandestini sulle coste siciliane, ipotizzati nelle ultime ore dai ministri Terzi e Cancellieri. Attualmente il centro immigrati isontino conta su una capienza di appena 68 posti, quelli della cosiddetta “zona rossa”, peraltro attualmente occupata per meno di un terzo. Ancora fuori gioco la “zona verde” da 44 posti, nei prossimi giorni arriverà invece l’agibilità della sezione più capiente, la “zona blu” da altri 136 posti letto. I funzionari della Prefettura e della Questura goriziane, che venerdì hanno guidato i giornalisti all’interno del centro immigrati, lo hanno lasciato intendere in maniera piuttosto chiara: il Cie tornerà a regime. Ma al momento non esiste alcuno stato di allerta legato ai previsti flussi di immigrati nordafricani. Il carcere per migranti di Gradisca tornerà semplicemente al suo ruolo di routine da macchina da espulsioni per gli irregolari intercettati nel Nord Italia, o per stranieri in attesa di rimpatrio dopo avere scontato una pena in carcere. Difficile che cambi tipologia di ospiti. A sostenerlo è Angelo Obit, responsabile provinciale del sindacato di polizia Sap. «Mi sembra difficile che il Cie possa essere interessato direttamente dalle emergenze – afferma – per il semplice fatto che si tratta di un centro di espulsione. I disperati che giungono sulle coste siciliane richiederanno in massima parte asilo politico». Migranti che vengono dunque ospitati nei Cara o in strutture residenziali in attesa dello status di rifugiati. «Questo a meno che il governo non addotti una politica decisamente diversa» specifica Obit. Ovvero: il Cie gradiscano rientrerebbe nell’emergenza sbarchi solo in due casi: se il governo Monti dovesse decidere di fronteggiare i flussi col pugno di ferro ed espulsioni sistematiche dei clandestini approdati sulle coste, oppure riformando temporaneamente i Cie come avvenne nel 2007, quando i centri vennero eccezionalmente sdoppiati in strutture di accoglienza oltre che d’ espulsione.
Da Il Piccolo del 12/05/2012
Il Cie tornerà a ospitare oltre duecento stranieri
di Luigi Murciano GRADISCA D’ISONZO Dopo un anno in cui è stato poco più che un presidio (oggi appena 24 presenze su 248 posti) il Cie di Gradisca rientrerà a regime. Se repentinamente o progressivamente, sarà il Viminale a deciderlo. É emerso nel corso del pluri-invocato sopralluogo degli organi di informazione alla struttura per migranti isontina. Dopo un black-out informativo durato quasi 4 anni, infatti, ieri grazie alla campagna LasciateCientrare le porte dell’ex Polonio si sono spalancate. «Questo posto non è degno di un Paese civile», «Liberateci», «Siamo trattati come cani per un documento scaduto», le grida con cui hanno accolto i visitatori e cercato di scavalcare idealmente il dedalo di sbarre e protezioni in plexiglass. Gli “ospiti” sono costretti a dormire in una stanza in 8 (e fino a poco tempo fa senza materassi per il timore venissero incendiati) e a vedere il sole solo due volte al giorno da una “gabbia” di 25 metri quadrati, perchè già l’accesso al campetto da calcio è ritenuto pericoloso per eventuali evasioni. La calma è apparente anche per l’annus horribilis vissuto dal Cie sotto il profilo gestionale, fatto di indagini della Procura su presunti falsi nelle fatturazioni e di sentenze del Tar che costringono la Prefettura a prorogare di 10 in 10 giorni l’appalto alla cooperativa siciliana Connecting People. In mezzo anche due casi di patologie sospette: una di Tbc e una di scabbia, ma dall’infermeria assicurano: «Le persone sono in isolamento soltanto a titolo precauzionale, le analisi hanno già dato esito rassicurante”. I sindacati di polizia sono pessimisti: con appena 8 uomini a turno il Cie a regime tornerà ad essere un inferno. La ristrutturazione delle due sezioni messe a ferro e fuoco dai migranti fra il 2007 e il febbraio dello scorso anno sono pressoché ultimate (la zona blu da ben 136 posti) o comunque in dirittura d’arrivo (altri 44). Giusto in tempo per fare fronte alle nuove ondate di sbarchi estivi sulle coste siciliane. Il Cie tornerà presto ad essere quella macchina da espulsioni (1.500 dal 2006 ad oggi) voluta da governi di centrosinistra – che queste strutture le ha istituite – e centrodestra, che i Cpt li ha trasformati in quello che sono oggi. Nè carne, nè pesce. Così Juri, malinconico operaio ucraino 49enne appena arrivato al Cie e ancora stranito dal ritrovarsi dietro le sbarre, si chiede a che serva Schengen e divide la cella con i marocchini Muhammed, ex spacciatore, e Afidh, pasticcere a Palermo fino a un mese fa. E ancora Fathi, 32enne libico che affida le proprie speranze alla richiesta di asilo politico, torna dietro le sbarre come un delinquente: «In Libia mi hanno ammazzato tutta la famiglia, tornare là mi fa male». Ma quanto è costato sino ad oggi il Cie? Oltre il centinaio di milioni di euro: 17 per realizzarlo, 90 per sei anni di gestione, 2 milioni per le ristrutturazioni, attorno a un milione per i rimpatri.
Dal Messaggero Veneto del 13/05/2012
Pronta per nuovi arrivi la zona blu: altri 136 posti
GRADISCA D’ISONZO La zona blu è pronta. Dalla prossima settimana potrà riaprire i cancelli a nuovi arrivi. Lo annuncia la Prefettura di Gorizia. Sarà il ministero, però, a decidere quanti immigrati trasferire. La capienza massima della zona blu è di 136 posti. Altri 44 saranno ricavati nella zona verde, dove a giorni partirà il cantiere per la ristrutturazione. I sindacati di polizia. In vista dell’aumento di trattenuti, i segretari provinciali del Sap Angelo Obit e del Siulp Giovanni Sammito chiedono un potenziamento del personale di vigilanza. Obit, inoltre, si augura «che l’operatore in servizio al Cie non venga più considerato come un jolly da giocare per altri servizi, visto che attualmente la Questura lo dirotta sulle volanti». I costi. Per ogni immigrato al Cie, lo Stato sborsa 42 euro al giorno. Che ci sia, o che non ci sia. Già, perché attualmente gli ospiti sono 24, ma lo Stato paga come se fossero 123. «In realtà anche se non siamo a pieno regime – svela l’arcano il generale Vittorio Isoldi della Connecting people, la cooperativa che gestisce la struttura – l’accordo prevede un pagamento a scaglioni. A meno del 50% della capienza il rimborso erogato è calcolato su 123 persone. Del resto dobbiamo pagare il personale (circa 70 addetti, una decina gli stranieri) e le spese vive». Facendo un rapido calcolo, al mese per ogni ospite al Cie si spendono 1.260 euro. Moltiplicato per 24 (gli immigrati che si trovano attualmente nella ex caserma Polonio) dà come risultato 30.240 euro. Invece, ogni mese lo Stato spende 154.980 euro al mese, ovvero 124.740 euro in più per i 99 immigrati-fantasma. Il Cara. Al Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati) di Gradisca vivono nove donne e otto bambini (sei maschi e due femmine. Alcuni di loro vanno anche a scuola nella città della fortezza. In totale il Cara ospita 138 persone. Anche in questo caso l’appalto prevede un costo per lo Stato di 42 euro a persona. Al mese fa 173.880 euro. La vita al Cara è molto diversa; gli ospiti possono, infatti, uscire liberamente dalle 8 alle 20, lavorare all’esterno e così via. I rimpatri. «Dalla sua apertura, nel 2006, ad oggi – comunica l’Ufficio immigrazione della Questura – dal Cie sono stati rimpatriati circa 1.500 immigrati». Da quando è cambiata la legge, che allunga il periodo di permanenza nella struttura fino a 18 mesi – anche se solitamente ci vogliono dai 60 ai 90 giorni –, tutti chiedono il rimpatrio, pur di non rimanere rinchiusi nel Cie. Commissione Ue. Arriverà a sorpresa nei prossimi giorni la visita della Commissione Ue contro la tortura, che sta facendo il giro dei Cie di tutta Italia. Condizioni di vita. La Polizia specifica che i cellulari vengono sequestrati all’arrivo per evitare che i trattenuti coordinino azioni di rivolta. Connecting people e Prefettura sottolineano che i familiari degli ospiti possono entrare quando vogliono perché hanno un’autorizzazione permanente, che i contatti con l’esterno e con i legali di fiducia sono frequenti. «Cerchiamo – conclude il generale Vittorio Isoldi della Connecting people– di migliorare le loro condizioni di vita qui». Conferma anche un agente: «Con il dialogo si riesce a risolvere tutto. Noi parliamo moltocon loro. Certo, il lavoro qui è stressante». (i.p.)
12/05/2012
«Siamo come schiavi» la vita dentro la gabbia”
di Ilaria Purassanta GRADISCA D’ISONZO Sessanta metri quadrati di cielo in una gabbia di ferro e cemento che la calura estiva rende ancora più soffocante. È tutto ciò che gli immigrati trattenuti nella struttura gradiscana riescono a vedere del mondo che sta fuori dal Cie, oltre le sbarre serrate con grossi lucchetti, i labirinti di inferriate e plexiglass e il pesante cancello automatico che ha chiuso la porta in faccia alla libertà e alle loro speranze. Quando, ieri mattina, dopo quattro anni, i giornalisti hanno potuto rimettere nuovamente piede dentro il Centro di identificazione ed espulsione, dagli immigrati si è levato un urlo: «Vogliamo libertà e diritti, aiutateci»! Hanno preso d’assalto le sbarre che dividono il cortile delle camerate dal corridoio dove passavano i visitatori, sporgendo le mani per attirare l’attenzione, un coro di grida sovrapposte e di tante lingue diverse, l’urgenza di denunciare le condizioni di vita dentro al Cie, la rabbia e lo sconcerto di ritrovarsi rinchiusi in gabbia. «Questo non è un paese civile se siamo qui» l’ira fa tremare la voce a un ragazzo. Nella zona rossa, attualmente l’unica agibile, vivono 24 uomini: persiani, senegalesi, marocchini, tunisini, libici, algerini. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, attendono il decreto di espulsione e il rimpatrio. Vengono rispediti nelle loro terre d’origine con un volo di linea o un charter. Fra loro c’è Omar, un muratore marocchino che ha lavorato prima per un’impresa edile poi come badante per una disabile. Peccato che la sua ultima datrice di lavoro non gli abbia versato i contributi: così, di punto in bianco, si è ritrovato senza la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno ed è finito al centro di Gradisca. Un altro marocchino, il 48enne Hassam si è ritrovato senza un impiego all’improvviso: l’azienda di Treviso per la quale lavorava si è trasferita a Ferrara: tutti i lavoratori sono finiti sulla strada. Lui, invece, al Cie. «Sono in Italia dal 1988 – Hassam mostra i documenti – e ho pagato sempre i contributi, mai commesso un reato. Ora sono clandestino». Altri, come il persiano Reza provengono invece dal circuito carcerario e scontano qui la fine della pena. «Qui si sta peggio che in galera – raccontano – almeno in prigione hai dei pasti buoni, lenzuola pulite, puoi comprare le sigarette, se stai male vai subito in infermeria, qui invece l’altra sera uno di noi stava male e per un’ora e mezza non è venuto nessuno, abbiamo dovuto chiedere aiuto ai militari, che hanno a loro volta avvisato l’infermeria». Il tempo scorre fra le camerate e il cortile, un acquario di plexiglass e grate metalliche che d’estate si trasforma in un forno. Ha le inferriate persino la televisione. Non possono nemmeno leggere libri: i materiali infiammabili, dopo gli incendi del febbraio dello scorso anno, che hanno devastato la zona blu, non sono ammessi al Cie. Le sigarette sono razionate: ogni “ospite” ha cinque buoni di colore rosa, ciascuno vale una bionda. Per chiamare la famiglia si fa la fila all’unico telefono disponibile. «Hai una scheda da 5 euro, ma dopo due minuti di una chiamata internazionale hai già esaurito il credito» racconta un immigrato. «C’è un solo rasoio elettrico per tutti noi» segnala un altro. Fino a due mesi fa in alcune camerate non avevano nemmeno i materassi: dormivano direttamente sul letto di metallo. Ora, gridano alcuni «non ci cambiano nemmeno le lenzuola, con tutto questo caldo abbiamo due coperte di lana» e trascinano fuori in cortile un materasso con le coperte per dimostrare che stanno dicendo il vero. In una camerata non si lavano da due settimane perché le docce sono state rotte da un precedente “inquilino”. «Per forza che ci viene la scabbia» tuona il trentenne marocchino Mohammed e mostra alcune eruzioni cutanee a suo dire sospette: «Queste non c’erano quando sono entrato, ma uno che dormiva con noi ha preso la scabbia e non hanno cambiato i materassi». «Nel Cie non c’è nessuna attività, non c’è niente – sospira Mohammad, laureato in legge, che in Senegal ha lasciato moglie e figlio per cercare fortuna in Italia – . Qui mi sento come uno schiavo, perché un cane è trattato meglio, se ha un padrone buono. L’effetto che mi fa questo posto? Mi fa venire voglia di suicidarmi o di prendermela con persone che non centrano niente. Viviamo in condizioni indecorose. Il mio unico sbaglio è stato quello di non rinnovare in tempo il mio permesso di soggiorno. Dopo 15 anni di contributi pagati allo stato italiano, sono finito qua. È una cosa vergognosa. Io voglio giustizia e più umanità: noi siamo esseri umani. Io sono orgoglioso di essere senegalese e vorrei ritornare a casa, riabbracciare mia moglie e mio figlio». Gli vengono i lucciconi agli occhi, ma riesce a trattenere le lacrime: «Una volta li sentivo ogni giorno, tramite facebook e internet, da un giorno all’altro, non ho più potuto farlo: qui a Gradisca ti tolgono il cellulare. Una volta ogni tanto ti danno una scheda»
dal Messaggero Veneto del 11/05/2012
Dopo quattro anni i cancelli del Cie di Gradisca d’Isonzo si aprono nuovamente ai giornalisti. “Vogliamo libertà, questo non è un paese civile, aiutateci!”: è il grido con il quale gli immigrati trattenuti dentro alla struttura di identificazione ed esplusione accolgono la stampa e le troupe televisive
di Ilaria Purassanta
GRADISCA. Dopo quattro anni i cancelli del Cie di Gradisca d’Isonzo si aprono nuovamente ai giornalisti. “Vogliamo libertà, questo non è un paese civile, aiutateci!”: è il grido con il quale gli immigrati trattenuti dentro alla struttura di identificazione ed esplusione accolgono la stampa e le troupe televisive. In ventiquattro condividono le camerate nella zona rossa. Vengono dalla Persia, dal Marocco, dal Senegal e dalla Libia. C’è chi ha pagato i contributi per quindici anni allo Stato e poi ha perso il lavoro perché la ditta è fallita, ritrovandosi nella condizione di non poter più rinnovare il permesso di soggiorno.
C’è un laureato in legge del Senegal che vorrebbe leggersi un libro per passare il tempo, ma i libri sono materiale infiammabile, non possono entrare nel Cie. C’è anche chi proviene dal circuito carcerario e sconta qui la fine della pena: “In galera, però, si sta meglio”.La vita scorre in venticinque metri quadrati di cemento circondati dalle sbarre e negli stanzoni.
Dalla prossima settimana, la zona blu è pronta a riaprire i battenti e ad accogliere i nuovi arrivi dagli altri centri d’Italia, che sono sovraccarichi. La sua capienza è di altri 236 posti. Per ogni trattenuto Connecting people riceve dallo Stato 42 euro al giorno. In realtà, però, il conteggio va a scaglioni. Anche se ora gli immigrati al Cie sono solo 24, la Cooperativa che ha in gestione il Cie e il Cara viene pagata come se nella struttura ci fossero 123 trattenuti. Stessa cifra a persona anche per gli ospiti del Cara, rifugiati e richiedenti asilo: attualmente sono 138. Fra questi, nove donne e otto bambini.
Marzo 17th, 2017 — General, Notizie flash
Servizio sul Lager di Gradisca
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Marzo 17th, 2017 — General, Studenti Trieste
da Il Piccolo del 15/05/2012
Studenti e insegnanti in corteo per dire no ai test Invalsi
«No ai test Invalsi, no alla scuola a crocette». Gli studenti degli istituti superiori, che domani saranno chiamati a sostenere le prove previste dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione, consegneranno i loro test in bianco e per protesta scenderanno in piazza. Al loro fianco anche molti professori, che si uniranno allo sciopero e daranno vita al corteo che partirà da piazza Goldoni alle 9 per arrivare in piazza Unità. La mobilitazione annunciata ieri in un incontro, e alla quale hanno aderito le rappresentanze sindacali dei Cobas, nasce per esprimere contrarietà ad un sistema di valutazione che, secondo i promotori della protesta, non fotografa affatto lo stato di “salute” della scuola italiana. Se fosse così, aggiungono, non sarebbero esclusi dalle prove i disabili, le persone non vedenti o dislessiche. In tutta Italia le proteste sono iniziate già la scorsa settimana, quando ad essere coinvolte nelle prove sono state le scuole elementari e medie. In quell’occasione, a Trieste, i genitori degli alunni delle seconde classi elementari dell’istituto Duca d’Aosta non hanno mandato i loro figli a scuola. Anche se le prove, spiega Daniela Antoni dei Cobas, si possono fare pure con solo tre alunni in classe. «Con questi test non si può valutare il valore dell’istruzione, anzi vengono meno le basilari regole di una democrazia». Per gli studenti si tratta di un sistema di valutazione inutile che non fa che impoverire il sistema scolastico. Per questo, spiega Erasmo Sossich, rappresentante dell’Unione degli studenti, è stato organizzato un dibattito che ha coinvolto gli studenti delle superiori durante le assemblee d’istituto e di classe. Mentre in alcune realtà come Petrarca, Oberdan e Max Fabiani è stato indetto un referendum tra tutti gli iscritti dalla prima alla quinta classe edove l’80% ha detto no ai testi Invalsi. «Non è importante investire nella scuola – afferma provocatoriamente Daniela Antoni -, ma piuttosto spendere una decina di milioni per questi test, quando le scuole non sono luoghi sicuri e cadono a pezzi. È mancato un dibattito serio, le famiglie non sanno di cosa si tratta e tante volte nemmeno gli insegnanti ne discutono». Il coordinamento “No Invalsi”, nato su Facebook grazie all’impegno degli studenti e insegnanti triestini, è stato preso come esempio anche in altre 16 città italiane che saranno coinvolte dalla protesta. (i.gh.)
da Triesteallnews
- SCUOLA La protesta domani parte da piazza Goldoni, organizzata dal Coordinamento No Invals

15.5.2012 | 9.02 – In piazza domani studenti e professori contro i test dell’Istituto nazionale valutazione scuola italiana (Invalsi) imposti dal ministero.
La manifestazione prenderà il via alle 9 da piazza Goldoni ed è organizzata dal Coordinamento No Invalsi, nato lo scorso dicembre e costituitosi grazie al coordinamento tra i CoBas e l’Unione degli Studenti.
Il test Invalsi è un quiz a crocette costruito sullo stesso modello dei sistemi scolastici inglesi e americani, e pretende tramite “punteggi oggettivi” di valutare l’efficienza di alunni, professori e scuole.
Perché l’opposizione al test Invalsi? «Riassume in sé quasi tutto ciò che di sbagliato sta attraversando la scuola pubblica da molti anni a questa parte, e rischia di essere per essa il colpo di grazia – dicono gli organizzatori della protesta -. Dall’idea di didattica nozionistica ai prezzi spropositati, dall’idea falsa e classista di “merito” dietro cui si nasconde (scuole di serie A e scuole di serie B, ) all’attacco alla libertà d’insegnamento dei professori, dall’assoluta noncuranza dei percorsi individuali e delle problematicità delle classi e dei professori alla volontà di trasformare le scuole in caserme per cervelli piuttosto che in luoghi di formazione, creatività, cultura…».
Marzo 17th, 2017 — Carceri, General
Da Il Piccolo del 15/05/2012
«Decine di altri casi come Alina»
di Corrado Barbacini Dietro il suicidio di Alina, la donna ucraina morta in una stanza del commissariato di Opicina, ci sono «decine di altri casi» di detenzioni illegali. Parla chiaro il procuratore capo Michele Dalla Costa: «L’attività d’indagine è rivolta a verificare se anche altre persone, come pare, sarebbero state trattenute senza alcun provvedimento nel commissariato. In particolare stiamo accertando anche questi aspetti in relazione ai diritti inalienabili di tutte le persone». Le parole secche e misurate indicano la direzione in cui si stanno muovendo le indagini coordinate dal pm Massimo De Bortoli scaturite dal suicidio della cittadina ucraina all’interno della camera di “controllo” del commissariato di Opicina. Dall’esame dei 49 fascicoli acquisiti durante la perquisizione effettuata mercoledì scorso negli uffici dell’ufficio immigrazione dela Questura e, in particolare, in quello del dirigente Carlo Baffi, indagato per sequestro di persona e omicidio colposo, sta infatti emergendo che le detenzioni illegali avrebbero riguardato, dallo scorso mese di agosto, altri 49 stranieri i cui nomi compaiono sui fascicoli stessi. Dalla Costa parla di «decine di stranieri». Extracomunitari che, anche per quattro giorni consecutivi in alcuni casi, sarebbero stati reclusi senza alcun provvedimento, né amministrativo, né penale all’interno della cosiddetta stanza di controllo del commissariato di Opicina. Ma non solo: il procuratore Dalla Costa punta il dito annche su un altro aspetto relativo all’inchiesta. È quello – non trascurabile – della detenzione in senso stretto nel commissariato. In pratica Alina e gli altri “sequestrati” in attesa di espulsione sono stati chiusi a chiave nella cella di Opicina. Anche su questo aspetto, non trascurabile, Dalla Costa si sofferma. Sul fatto cioè che il suicidio – filmato dalle telecamere a circuito chiuso – è avvenuto in una struttura di polizia dove quella persona non avrebbe dovuto essere deportata. Su questi elementi d’accusa nei confronti del dirigente dell’ufficio immigrazione si inseriscono, secondo la Procura, anche gli esiti della perquisizione di mercoledì. Che come noto ha riguardato su ordine del pm Massimo De Bortoli anche l’abitazione di Baffi, dalla quale i finanzieri e i poliziotti incaricati dalla Procura hanno prelevato alcuni libri dal contenuto antisemita. Sequestri questi che hanno provocato non poche polemiche, tanto che il segretario dell’Associazioone nazionale funzionari di polizia Enzo Marco Letizia ha annunciato di stare valutando l’opportunità di presentare un esposto al Consiglio superiore della Magistratura. Afferma in proposito Dalla Costa: «Lo facciano. Posso dire che dal mio punto di vista non ci sono comportamenti della Procura da meritare l’attenzione del Csm». Intanto l’avvocato Sergio Mameli, che assiste i familiari dell’ucraina, ha depositato una memoria in cui chiede il sequestro di tutta la documentazione medica riguardante Alina Bonar Diachuk custodita nell’infermeria del carcere del Coroneo
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Marzo 17th, 2017 — General, Ultime
Dal Piccolo del 16/05/12
Presidio in piazza per Alina In arrivo anche altri “avvisi”
Un presidio alla settimana e altri indagati in arrivo. La morte della cittadina ucraina, Alina Bonar Diachuk, di 32 anni, che il 16 aprile scorso si è tolta la vita in una stanza del commissariato di Villa Opicina, rischia di travolgere la Questura di Trieste. Un indagato c’è già, ed è il vicequestore Carlo Baffi, responsabile dell’Ufficio immigrazione. Ieri oltre 200 persone, in piazza della Borsa, hanno chiesto la sua testa al questore Giuseppe Padulano. Anzi la sua “epurazione” vista «la targhetta del Ventennio (“Ufficio epurazioni”) con tanto di effigie del duce riesumata per il suo ufficio» come ricorda l’ex consigliere regionale Alessandro Metz. Le indagini intanto proseguono e potrebbero allargarsi. Il capo della Procura di Trieste, Michele Dalla Costa, parlando della vicenda con l’Adnkronos afferma che «ci sono altre persone sulle quali si è appuntata l’attenzione della Procura». In altre parole, tutto fa pensare che non possa essere attribuita solo all’”eccentrico” Baffi (“in ufficio e nell’abitazione è stata rivenuta un’autentica collezione di memorabilia del Ventennio fascista compreso materiale antisemita”) la responsabilità di quanto avvenuto nella cella del commissariato di Opicina. Alina, che aveva appena scontato 10 mesi di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, si è tolta la vita usando il cordino della felpa, quando era trattenuta, senza alcun provvedimento della magistratura, nel commissariato dell’altipiano. Un’agonia di quaranta minuti documentata da una telecamera di sicurezza. Per questo motivo alcuni lo definiscono «un suicidio assistito». «Un omicido progettato» lo chiama senza troppi giri di parole il consigliere regionale di Rifondazione Comunista Roberto Antonaz. L’ipotesi di reato per la quale è indagato Baffi è sequestro di persona e omicidio colposo. Le indagini condotte dal pm Massimo De Bortoli devono verificare se in effetti la Diachuk fosse trattenuta in Commissariato senza alcun titolo, se fosse chiusa a chiave dentro una stanza e se si sia trattato di un caso isolato, o, «come pare – conferma il procuratore capo – ci siano stati altri casi di stranieri trattenuti a Opicina senza alcun titolo. Stiamo valutando decine di posizioni, a partire dal secondo semestre del 2011, per verificare se quello dell’ucraina sia stato un caso isolato o meno», conferma Dalla Costa. Si parla di altri 49 casi. Il commissariato di Villa Opicina usato praticamente come un Cie clandestino. Parallelo a quello di Gradisca. E, ieri, in piazza della Borsa, in zona Questura, si è svolto il primo sit-in “Libertà e giustizia per Alina” contro la procedura usata dalla Questura nel trattenere gli stranieri da espellere, nel commissariato di Opicina. L’iniziativa è stata indetta da varie organizzazioni tra le quali Occupy Trieste, centri sociali, Arci, Unione degli studenti, Fiom e a cui hanno aderito anche Rifondazine comunista e Sel. «Un presidio di dignità da parte di una città che non accettà la banalità del male» spiega Luca Tornatore, uno dei leader di Occupy Trieste, citando Hannah Arendt. «Noi restiamo umani». Il presidio contro la Questura si è svolto con parole pesanti ma in assoluta tranquillità sorvegliato a vista da alcuni carabinieri. La pena del contrappasso. «In questa città c’è una malattia: i giustizieri della polizia. Migranti liberi, fascisti in gabbia» recita uno degli striscioni steso in piazza della Borsa in piazza della Borsa. «In Questura stanno succedendo delle cose indegne. Indecenti. Adesso si scopre che fanno i giustizieri della notte e addobbano le stanze con i poster del mascellone» aggiunge Tornatore, mentre Metz alza il tiro: «Baffi lavorava nella clandestinità? Nessuno si è mai accorto di nulla? Padulano deve rimuoverlo subito. Altrimenti se ne deve andare anche Padulano». E, finché non succede qualcosa, promettono un presidio alla settimana. Ogni martedì alle 17 in piazza della Borsa. «Non si può fare finta di niente. La città non può fare finta di niente». (fa.do.)
Marzo 17th, 2017 — General, Gruppo Anarchico Germinal
IL GERMINAL
VERSO CASA
Inaugurazione della nuova sede in via del Bosco 52/A
Anarco-parata de strada (portatevi uno strumento o un tamburo o quel che volete per fare caciara)
Sabato 19 maggio
ritrovo alle 18 in p.Borsa
e poi la festa continua in via del Bosco con Dj set, musica e…porta ciò che vorresti trovare!
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Marzo 17th, 2017 — General, Noi
Venerdì 18 maggio ore 20.30 a Quarto D’Altino
Centro Multiservizi, via Tommaso Abbate
Assemblea informativa No Tav autogestita
Coordinamento No Tav Veneto
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