Monfalcone: altro processo per le morti da amianto

da Il Piccolo del 5 novembre 2013

Maxi-processo bis per 30 morti di amianto

In aula a Gorizia 21 fra dirigenti dell’ex Fincantieri, responsabili della sicurezza e titolari di ditte esterne

GORIZIA. Si ricomincia. Non è passato neppure un mese dalla sentenza del maxiprocesso per l’amianto, che questa mattina al tribunale di Gorizia si torna a parlare di asbestosi in quello che viene definito il processo bis per le morti da amianto.

Oggi è a ruolo il processo che vede imputati di omicidio colposo 21 tra dirigenti dell’ex Italcantieri, responsabili della sicurezza nei cantieri e titolari delle ditte esterne, che lavoravano all’interno dello stabilimento di Panzano. Questo secondo troncone dell’inchiesta giudiziaria, riguarda 30 decessi di dipendenti che lavoravano in cantiere. L’udienza odierna – il processo è affidato al giudice monocratico Russo – sarà comunque interlocutoria perché l’intenzione del tribunale è di riunire il procedimento a quello a ruolo per il 17 dicembre prossimo che riguarda invece la morte di 41 lavoratori causata secondo il capo di imputazione da carcinoma polmonare correlato all’asbestosi. Secondo la Procura – l’inchiesta è stata condotta dai sostituti procuratori Luigi Leghissa e Valentina Bossi, ma in udienza ci sarà solo la Bossi – il tumore polmonare sarebbe stato provocato proprio dalla presenza della fibra killer, ma sarà comunque il dibattimento processuale, nel quale avranno un ruolo importante le consulenze medico-legali che saranno portate dalle parti in causa, ad accertare le vere cause.

Gli imputati di questo processo sono sostanzialmente quelli del procedimento odierno, anche se con posizioni processuali diverse. Al momento, oltre a una trentina di familiari dei deceduti, non si sono costituiti parte civili enti o associazioni anche se lo potranno ancora fare nel corso della prima udienza. L’udienza di oggi sarà interlocutoria. Il giudice provvederà a rinviare il processo al prossimo dicembre per riunire i due fascicolo e dare vita a un secondo maxiprocesso. Solo allora il procedimento, dopo aver svolto la parte preliminare con l’ammissione dei testi e delle prove, potrà avviarsi con l’audizione delle prime testimonianze. Sarà un processo che non si prolungherà oltre tre anni come il primo, ma certamente durerà non meno di un anno. La sentenza quindi potrebbe arrivare ai primi mesi del 2015.

Il primo maxiprocesso si era lo scorso 15 ottobre con la condanna di 13 tra gli amministratori e i dirigenti dell’ex Italcantieri e l’assoluzione dei titolari delle imprese che avevano i subappalti all’interno del cantiere di Monfalcone. Il giudice monocratico Matteo Trotta, che nel frattempo ha assunto l’incarico i presidente del tribunale di Trieste, ha inflitto complessivamente 55 anni e 8 mesi di reclusione. Entro il 15 gennaio sarà depositata la motivazione della sentenza. Da quel momento difensori e procura hanno tempo 45 giorni per presentare appello.

 

CIE DI GRADISCA: rassegna stampa del 06-7-8/11

Dal Piccolo del 08/11/13

 

Il Viminale “dimentica” il Cie di Gradisca

Nessuna comunicazione ufficiale sui lavori di ristrutturazione. Gli immigrati trasferiti in Sicilia innescano nuove proteste

di Luigi Murciano

GRADISCA. Non esiste una data per l’inizio dei lavori di ristrutturazione del Cie di Gradisca. E non è chiaro neppure se l’eventuale riapertura dell’ex Polonio sarà progressiva o bisognerà attendere che siano recuperate in blocco tutte e tre le sezioni rese inagibili dalle rivolte degli ospiti degli ultimi tre anni. L’impressione è che, dopo averne azzerato le presenze, sulla struttura di Gradisca il Viminale voglia quasi prendersi una pausa di riflessione. A confermare come da Roma non vi siano novità sostanziali è Giuseppe Donadio, capo di gabinetto della Prefettura di Gorizia. «Ad oggi non abbiamo comunicazioni ufficiali sull’inizio dei lavori e sulla loro durata – spiega – nè sappiamo se l’eventuale riapertura avverrà a blocchi o bisognerà attendere che tutte e tre le sezioni siano ripristinate». Una situazione di incertezza che ricorda da vicino quella di altri Cie italiani: nei mesi scorsi a chiudere temporaneamente i cancelli erano stati i centri di Brindisi, Bologna, Modena e Crotone, mentre le altre 8 strutture ancora operative registrano ogni giorno la chiusura di alcuni padiglioni a causa delle rivolte degli ospiti.

Un’altra certezza su Gradisca però c’è: ed è che per disposizione del Ministero dell’Interno i giornalisti non potranno visitare ciò che rimane dell’ex caserma. Disposizione che, però, non riguarda i consiglieri regionali. Oggi gli esponenti di Sel e Pd Giulio Lauri, Silvana Cremaschi, Diego Moretti e Stefano Pustetto visiteranno il Centro di identificazione ed espulsione.

Intanto dalla Sicilia rimbalza la notizia che i 36 immigrati trasferiti da Gradisca al Cie di Milo hanno dato vita a una veemente protesta non appena sistemati nel centro trapanese, salendo sui tetti e urlando la propria rabbia sino a sfiorare il contatto con le forze dell’ordine. In una situazione di stallo ed enorme incertezza, la dialettica politica non cessa di arroventarsi. Per il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, il provvedimento di chiusura temporanea «deve diventare presto una chiusura definitiva. Quegli spazi vengano utilizzati per ampliare il centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara-Cda ndr) situato a pochi metri». Per la consigliere del M5S Ilaria Del Zovo le condizioni di trattenimento degli immigrati al Cie erano ormai «oscene». «Questo non per colpa degli operatori e delle forze dell’ordine – precisa – che anzi hanno operato in condizioni difficili e alle quali va la nostra solidarietà. Ma è giunto il tempo di una totale revisione della normativa sull’immigrazione». Il deputato della Lega Nord Massimiliano Fedriga punta l’indice sulle dichiarazioni rilasciate dal centrosinistra: «Le parole di Serracchiani, Gherghetta e del sindaco Tommasini lasciano esterrefatti. Chiudere la struttura significherebbe alzare le mani e ufficializzare la sconfitta dello Stato di fronte alla violenza di un manipolo di clandestini. Razzismo il nostro? No – conclude Fedriga – razzista è chi non tutela i cittadini di questa regione». Duro anche il Pdl: «La sinistra – attacca il Pdl Rodolfo Ziberna – non ha mai condannato l’inaudita violenza dei protagonisti e, anzi, ha solidarizzato con loro». Anche il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, infine, aderisce all’appello di Melting Pot per la chiusura del Cie di Gradisca che culminerà in una mobilitazione della galassia antirazzista sabato 16 novembre.

 

 

Dal Piccolo del 07/11/13

Cie di Gradisca chiuso per almeno 6 mesi

La struttura devastata, dopo la partenza degli ultimi nove ospiti, attende i lavori di bonifica. Bagarre politica sulla riapertura
Gli addetti del centro accusano Pellegrino: «Sposta il problema e ci lascia senza lavoro»

Monta la preoccupazione dei lavoratori di Connecting People. Già provati dalla vicenda dei ritardi nell’erogazione degli stipendi – dalle 4 alle 6 mensilità arretrate – per i lavoratori della coop siciliana lo stop al Cie rischia di rappresentare il colpo di grazia. Il loro timore è che, a causa della chiusura, arrivino i tagli di organico. La preoccupazione serpeggia su Facebook contro la parlamentare Serena Pellegrino (Sel). «Da anni senza essere ascoltati ma dipinti come aguzzini abbiamo tentato di migliorare le condizioni di vita degli ospiti e nostre – uno dei commenti – lei in soli tre mesi riesce non solo a far chiudere la struttura spostando soltanto il problema in altre regioni, ma ad aumentare il mare di disoccupati che la chiusura comporterà». E un altro: «Da domani resterò a casa. Non prendo la paga da luglio ma ho sempre continuato a lavorare senza protestare platealmente. Ho visto invece persone contrarie al Cie sfasciare tutto, ottenere la chiusura del centro e addirittura la solidarietà di parlamentari. Devo forse sfasciare ed incendiare qualcosa anch’io?». Pellegrino ha cercato il dialogo: «Tenere in cattività delle persone perché generano posti di lavoro non è giustificabile». (l.m.)
di Luigi Murciano wGRADISCA Almeno sei mesi. Secondo indiscrezioni sarebbe questa la durata della chiusura temporanea del Cie di Gradisca decisa dal Ministero dell’Interno. Da ieri, completamente svuotata, l’ex caserma Polonio è a disposizione del Viminale. Uno stop per ora meramente tecnico e necessario ai lavori di ripristino (definiti «urgenti») della completa agibilità della struttura: in particolare nella “zona rossa” messa a ferro e fuoco dagli “ospiti” nel corso degli ultimi due mesi. Il prefetto di Gorizia Maria Augusta Marrosu ha confermato come proseguiranno i lavori di ripristino in altre due sezioni, la “zona verde” e la “zona blu” (quella più capiente con i suoi 136 posti). Quest’ultima sarebbe in realtà la più prossima ad ottenere l’agibilità, essendo i lavori di restauro praticamente conclusi. Eppure, per molti a sorpresa, ciò non ha indotto il Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Viminale a tenere aperta la struttura, neppure a basso regime. Anche da questo elemento si evince come la decisione proveniente da Roma sia stata più politica che tecnica, per usare un’espressione circolata fra i bene informati. Quello che è certo è che l’azzeramento del Cie da ieri è completato. Anche l’ultimo manipolo di clandestini ha lasciato la struttura di via Udine: erano in tutto 9, principalmente di nazionalità algerina. Sono stati in parte trasferiti nelle strutture “gemelle” di Milano e Trapani (qui anche due immigrati che avevano richiesto la protezione internazionale e per i quali è stata convocata d’urgenza l’apposita commissione) e in parte espulsi con accompagnamento alla frontiera. Chiuso un capitolo, ne resta aperto un altro. Quello del dibattito politico sul destino della struttura. Se dal centrodestra si è parlato esplicitamente di «sconfitta dello Stato e delle regole» e si auspica una riapertura in tempi ragionevoli, sul versante opposto il “punto” messo a segno con lo svuotamento e azzeramento del Cie apre nuove prospettive. C’è chi intravede lo spazio per fare in modo che la chiusura da temporanea diventi definitiva e chi si accontenterebbe se la struttura diventasse solo un centro per richiedenti asilo politico. «Non dava più alcuna garanzia di sicurezza e di civiltà. Siamo pronti a un confronto con il governo per trovare delle alternative, mi pare sensato di risistemare gli spazi del Cie e allargare il Cara» dice la governatrice Debora Serracchiani. Se la Regione e il Comune di Gradisca si erano impegnati a chiederne la chiusura o l’«umanizzazione», il presidente della Provincia di Gorizia Enrico Gherghetta rincara: «Questo è il momento giusto per mettersi assieme e dare una definitiva spallata al Cie – dice – Scriveremo al ministero dell’Interno per la chiusura della struttura di Gradisca e inviteremo i venticinque comuni e la Regione a fare altrettanto». Giulio Lauri, presidente del gruppo Sel in consiglio regionale, di «umanizzazione» non vuole sentire parlare, ma soltanto di chiusura. All’orizzonte, ad arroventare ulteriormente il caldo autunno del Cie, due manifestazioni di segno opposto: sabato 16 quella della galassia di associazioni antirazziste, appena 24 ore dopo quella della Lega Nord (erano stati annunciati Calderoli, Salvini e Fedriga) inizialmente destinata a “ripulire” il muro dell’ex Polonio dalle scritte pro-libertà e chiusura del Cie da parte degli attivisti no-Cie (il muro è stato precauzionalmente fatto imbiancare dalla Prefettura). «La sinistra vuol far credere che queste persone siano costrette a subire trattamenti inumani da parte degli operatori e delle forze dell’ordine – dice il deputato leghista Massimiliano Fedriga – Oltre a ledere l’immagine di chi svolge il proprio lavoro, fornisce il pretesto alle organizzazioni criminali per intensificare i cosiddetti viaggi della speranza». L’impressione è che la partita sul centro immigrati di Gradisca sia ancora tutta da scrivere. Daccapo.

 

 

Dal piccolo on line del 06/11/13

Via gli ultimi nove ospiti. Poi il Cie chiude

 

Stop provvisorio per ripristinare l’agibilità della struttura. Già in giornata il probabile completamento dello sgombero

di Luigi Murciano

 

GRADISCA. L’«azzeramento» del Cie di Gradisca non si ferma. E anzi, probabilmente già oggi, l’ex Polonio potrebbe chiudere fino a data da destinarsi. Lo sgombero avviata a sorpresa dal Viminale ieri mattina ha vissuto, come anticipato dal Piccolo, la sua prima puntata: 36 ospiti sono stati trasferiti nel Centro di identificazione ed espulsione di Milo (Trapani) con un volo targato Poste Italiane partito dall’areoporto di Ronchi. Per altri 13 stranieri irregolari, invece, sono state disposte,e accelerate, le operazioni di rimpatrio nei paesi d’origine. Due immigrati avrebbero nel frattempo formalizzato richiesta di protezione umanitaria. Secondo quanto appreso, sino al tardo pomeriggio di ieri dietro le sbarre dell’ex caserma Polonio rimanevano solo nove immigrati, a fronte di una capienza di 248 posti. E già oggi, secondo alcune indiscrezioni, anche loro dovrebbero lasciare Gradisca per essere smistati tra i Cie di Milano, Torino e Trapani.

Per tutta la giornata di ieri, mentre il filo diretto Roma-Gorizia era evidentemente tanto serrato quanto riservato, si sono rincorse voci ed ipotesi su quale sarà ora il destino della struttura. Il Cie isontino, appare a questo punto scontato, verrà presto interessato da lavori di ristrutturazione e ripristino della sicurezza. Ma è chiaro che sotto il cielo della politica c’è chi – fra gli schieramenti contrari alle attuali norme sull’immigrazione – spera che la chiusura da provvisoria possa diventare definitiva. O auspica, come obiettivo minimo, che si arrivi ad una “umanizzazione” del centro. In attesa di conferme ufficiali sullo stop, seppur provvisorio, all’operatività del centro che tardano ad arrivare, la Questura di Gorizia si è limitata a precisare che nel centro sono attualmente agibili ancora 18 posti letto e che «al momento non è contemplata l’ipotesi di uno sgombero totale». A quanto risulta però, come detto, anche per i nove ospiti rimasti stanno per scattare – a seconda dei casi – o il trasferimento in altri Cie (nella fattispecie Milano, Torino e Trapani), oppure del rimpatrio, o infine dell’intimazione a lasciare il territorio italiano entro una settimana.

Uno scenario che porterebbe dunque al definitivo svuotamento della struttura. E che sarebbe avvalorato anche da un secondo retroscena: sarebbe infatti già pronta una disposizione della Questura destinata ad azzerare nei giorni a venire anche i dispositivi di vigilanza. «Provvedimento che avrebbe del clamoroso, se si pensa che la struttura è stata sorvegliata persino negli anni della sua costruzione quando non aveva neppure ospitato il primo clandestino», riflettono i sindacati di polizia, che continuano a parlare di «uno Stato che si è arreso» e respingono sdegnati al mittente le accuse di violenze e pestaggi sugli immigrati.

Sul destino della struttura sembra non avere dubbi invece il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi. «Il Cie di Gradisca è stato svuotato e temporaneamente chiuso come ripetutamente chiesto al ministro Alfano negli ultimi mesi, anche da parte di parlamentari e amministratori del territorio. A questo punsto, propongo che si arrivi alla chiusura definitiva e che la struttura venga utilizzata, una volta ristrutturata, per ampliare il centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara-Cda) situato a pochi metri».

Intanto, in una situazione a dir poco fumosa, la polizia ha individuato una parte dei responsabili dei disordini scoppiati all’interno del Cie tra mercoledì e sabato scorsi. Alcuni immigrati sono stati denunciati per danneggiamento; un cittadino nordafricano è accusato di lesioni per aver aggredito un altro ospite del centro, che si sarebbe rifiutato di gettare addosso agli operatori una bottiglia riempita con escrementi.

 

 

La giunta accelera sull’addio definitivo

Torrenti: «Il governo sposi la nostra linea». Pdl critico: «Lo Stato non ceda». Fedriga scrive ad Alfano

TRIESTE Gli sviluppi inattesi del caso Gradisca, hanno riacceso lo scontro politico sul destino del Cie. Se nel centrosinistra fiutano che il momento è propizio come non mai per insistere sulla chiusura dell’ex Polonio, nello schieramento opposto si parla senza mezze misure di «sconfitta del diritto». «Auspichiamo che le posizioni espresse da tempo dalla giunta regionale sul Cie di Gradisca siano fatte rapidamente proprie anche dal governo nazionale – afferma l’assessore Gianni Torrenti -. Il Cie era una struttura sorta con criticità intrinseche e ormai insostenibile già da tempo, da prima che cominciassero i recenti ed eclatanti episodi di rivolta». «Lo svuotamento della struttura in atto in queste ore – rincarano la dose Serena Pellegrino e Giulio Lauri di Sel – non rappresenta il punto d’arrivo, ma di partenza. Vorremmo il Cie chiuso per sempre, anche questo risultati oggi appare irrealistico». Pellegrino propone quindi che il Cie sia destinato – come i Cara – ad accogliere persone per tempi molto brevi, in condizioni abitative ed igieniche più adeguate e capaci di tutelare anche operatori e forze dell’ordine. Di altro tenore le argomentazioni di Rodolfo Ziberna. Pur ammettendo che la chiusura del Cie «non può essere messa in discussione a seguito dell’ormai totale inagibilità», il consigliere Pdl auspica che la struttura, una volta ristrutturata e riparata, venga riaperta. «È necessario – rileva – che i responsabili delle devastazioni di questi giorni, degli atti di inciviltà e dei danneggiamenti ad una struttura pagata con i soldi dei contribuenti, siano individuati e per questo perseguiti. A differenza di altri immigrati bisognosi di accoglienza, questi stranieri irregolari hanno deciso di far valere la loro ragione con la forza. La chiusura – è una sconfitta del diritto, delle regole democratiche ed assistenziali e della corretta accoglienza». Sulla stessa lunghezza d’onda il collega Roberto Novelli: «Che i detenuti al Cie siano trasferiti è una buona notizia per Gradisca, trattandosi nel 97% dei casi di persone con precedenti penali – riflette – Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: non è ammissibile che lo Stato abbia ceduto alle pretese di alcuni immigrati che negli ultimi mesi non hanno fatto altro che alzare il livello dello scontro per scampare all’espulsione». Critico anche il deputato leghista Massimiliano Fedriga, che ha presentato un’interrogazione al Viminale: «È la stessa direttiva comunitaria sui rimpatri a prevedere la presenza sul suolo nazionale dei Cie, in quanto funzionali all’identificazione e all’espulsione dei clandestini – afferma -. Pertanto il ministero deve chiarire la propria posizione sul futuro del Centro di Gradisca, indicando con trasparenza le tempistiche dei lavori di ripristino al fine di riportarlo a una piena operatività, e rende noto il bilancio dei danni provocati durante le proteste». (l.m.)

 

LA PROTESTA

Operatori senza paga Pressing sul Viminale

pazienza al limite Scatteranno nuove forme di lotta se Roma non darà risposte

TRIESTE Un giovane algerino, da 12 anni regolarmente in Italia, che si vede sospendere il figlio dall’asilo perchè la famiglia non riusciva più a permettersi la retta. Una signora della zona che si vede offrire aiuto da una profuga: «Se ti servono soldi per mangiare, te li presto io». Forse bastano queste due istantanee per fotografare in maniera cruda ma reale la situazione dei dipendenti di Cie e Cara di Gradisca. Proprio nelle ore in cui il primo dei due centri immigrati di via Udine sta per chiudere, i lavoratori – che a questo punto temono anche seriamente di restare senza impiego – si sono riuniti in assemblea per denunciare i continui ritardi nell’erogazione degli stipendi. Non ce la fanno più. Non solo il loro lavoro è rischioso e usurante, ma molti dei dipendenti della Connecting People – il consorzio trapanese che gestisce le due strutture – non ricevono la paga da 4 mesi. E i liberi professionisti che prestano servizio a Cie e Cara (compresi medici e infermieri) sono fermi alla mensilità di aprile e in qualche situazione persino a gennaio. «Forse anche nel nostro caso i diritti umani vengono calpestati, ma i politici che ora fanno passerella ci hanno completamente dimenticato». In tutto i lavoratori del centro sono una settantina. E ora, ricucito lo strappo con i sindacati (all’assemblea di ieri erano presenti Luca Manià, Cgil Funzione Pubblica, e Michele Lampe per la Uil-Fpl di Gorizia) fanno sul serio. Presenteranno un documento ufficiale al Viminale e alla Prefettura di Gorizia per chiedere non solo quanto dovuto, ma che d’ora in poi sia proprio quest’ultimo ente ad erogare direttamente gli stipendi. «La procedura per arrivare a questo parta con effetto immediato. Questi lavoratori stanno servendo lo Stato e sono alla fame». Se il documento non sortirà effetti, altre iniziative sono allo studio per dare voce alla protesta. L’origine del problema è il palleggio di responsabilità fra la Prefettura di Gorizia, ente appaltante, e la Connecting People come ente gestore. Stando alle ricostruzioni di Manià e Lampe, la coop siciliana lamenta infatti che la carenza di liquidità sia dovuta alla Prefettura, che sbloccherebbe a rilento le risorse provenienti dal Viminale per la gestione del Cie. L’organo prefettizio scarica invece la responsabilità sul consorzio, posizione che convince maggiormente i sindacati. «Un accordo risalente a settembre – è stato spiegato – prevedeva che il denaro per i salari arretrati sarebbe stato “scongelato” solo se Connecting People avesse presentato i cedolini dimostrando il pagamento dei salari di giugno. Cosa che ad oggi non è avvenuta. Connecting è inadempiente. E il fatto che vi sia un processo in corso (quello per presunta truffa ai danni dello Stato, ndr) in cui sono rinviati a giudizio sia i vertici della coop sia i funzionari prefettizi, sicuramente non ha agevolato gli operatori». La presentazione dei cedolini consentirebbe se non altro ai dipendenti di avviare un decreto ingiuntivo nei confronti del datore di lavoro. In loro assenza, invece, l’unica strada è chiedere che sia la Prefettura ad erogare direttamente gli stipendi. Operazione, però, più complessa. (l.m.)

 

Ricordo di Federico Tavan

Circa 80 persone hanno partecipato alla commemorazione di Federico Tavan

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OGM: contaminazione del 10% (agg.al l11/11)

Piccolo del 11/11/13

«Dimostrata la falsità dei dati di Futuragra»

TRIESTE Da un lato la preoccupazione per la pericolosità dei campi Ogm presenti in regione. Dall’altra la soddisfazione per il fatto che tali rischi vengano finalmente allo scoperto. Ad esprimerle sono le associazioni ambientaliste attive in Fvg che, prendendo spunto proprio dai risultati contenuti nella relazione del Corpo Forestale, per far ripartire il pressing sulle istituzioni. «Con grave ritardo, ma finalmente il Corpo Forestale dello Stato ha reso pubblico ciò che era ineludibile: le improvvide semine di Mon 810 a Vivaro e a Mereto di Tomba hanno lasciato un inquinamento che arriva al 10% sul mais dei terreni vicini – scrivono in una nota Aiab, Aprobio, Isde, Legambiente e Wwf -. Questa però è solo la contaminazione sulla coltura, nulla si sa su quella avvenuta verso specie spontanee. E c’è il problema del miele, conclamatamente contaminato dal polline Ogm». E tutto questo, sostengono, poi, è avvenuto «in barba alle rassicurazioni degli “scienziati” assoldati dalla Monsanto, che negli ultimi mesi hanno infestato le campagne friulane, dimostrandoci quanto siamo retrogradi ed informandoci di quanto male ci può fare la polenta. Ha infine dell’incredibile – concludono Aiab, Aprobio, Isde, Legambiente e Wwf, che nei prossimi giorni avvieranno una serie di incontri pubblici per illustrare le ragioni del no agli Ogm – il fatto che il ministro dell’Ambiente Orlando riproponga il palleggio, invitando le Regioni all’ormai superata emanazione dei piani di coesistenza». Ma oltre a governo e Regione ad accendere i riflettori sul caso mais geneticamente modificate è anche Bruxelles, che prova di nuovo ad ingranare la marcia sulle coltivazioni transgeniche, e spera in un colpo di vento favorevole per portare il dibattito fuori dalle secche in cui si è arenato negli anni. Lo scontro, però, è dietro l’angolo. Anche perchè la posta in gioco è alta: l’Europa è chiamata ad autorizzare dopo il mais della Monsanto 801 (quello piantato a Vivaro)anche una seconda “coltivazione Frankentein”, il mais TC 1507. Sotto la spinta di una sentenza del Tribunale Ue, che l’ha condannata per la lentezza nel trattare la richiesta presentata dalla Pioneer nel 2001, per la coltivazione del TC 1507, la Commissione ha investito del caso il Consiglio Ue. I ministri dei 28 Paesi hanno tre mesi per prendere posizione sull’autorizzazione. E l’ok potrebbe arrivare se non ci sarà una maggioranza qualificata a sbarrarle il cammino. In parallelo però l’esecutivo Ue prova anche ad offrire una via d’uscita a quegli Stati membri che non vogliono colture hi-tech sul proprio territorio. La Commissione rilancia infatti nel campo del Consiglio anche la palla della cosiddetta «proposta di coltivazione»: la direttiva che prevede la possibilità per ciascun Paese di decidere in modo autonomo. Una normativa destinata a sostituire le clausole di salvaguardia, che piace al ministro italiano Orlando.

 

mv on line 7 novembre 2013

 

 

  • Ue, scontro sugli Ogm:  caso contagi in Friuli

     

    Ue, scontro sugli Ogm:
     caso contagi in Friuli

    Bruxelles prova di nuovo a ingranare la marcia sulle coltivazioni transgeniche. In regione nei campi confinanti rilevata una contaminazione del 10 per cento

     

     

     

    BRUXELLES. Bruxelles prova di nuovo a ingranare la marcia sulle coltivazioni transgeniche, e spera in un colpo di vento favorevole per portare il dibattito fuori dalle secche in cui si è arenato negli anni. Ma lo scontro è dietro l’angolo. E sarà battaglia per introdurre la seconda coltivazione Frankentein, il mais TC 1507, (dopo quella Monsanto 801) sul suolo del Vecchio continente.

    Per capire che aria tira, basta guardare all’Italia dove, a distanza di un mese, non si arresta la polemica per la prima trebbiatura di mais Mon 810, a Vivaro (Pordenone), dove il vicepresidente di Futuragra (associazione favorevole alle biotecnologie) ha messo in pratica i suoi propositi, in barba all’altolà del ministro all’Ambiente Andrea Orlando e di un decreto che vieta la coltivazione sul territorio nazionale. È notizia di ieri che nei campi confinanti è stata rilevata una contaminazione fino 10%.

    Dal canto suo, sotto la spinta della sentenza del Tribunale Ue, che l’ha condannata per la lentezza nel trattare la richiesta presentata dalla Pioneer nel 2001, per la coltivazione del TC 1507, la Commissione ha investito del caso il Consiglio Ue. I ministri dei 28 hanno tre mesi per prendere posizione sull’autorizzazione.

    E l’ok potrebbe arrivare se non ci sarà una maggioranza qualificata a sbarrarle il cammino. In parallelo però l’esecutivo Ue prova anche ad offrire una via d’uscita a quegli Stati membri che non vogliono colture hi-tech sul proprio territorio. La Commissione rilancia infatti nel campo del Consiglio anche la palla della cosiddetta «proposta di coltivazione»: la direttiva che prevede la possibilità per ciascun Paese di decidere in modo autonomo.

    Una normativa destinata a sostituire le clausole di salvaguardia, che piace al ministro Orlando. In merito a questa proposta di legge, in ballo dal 2010, e che di fatto introduce flessibilità per le capitali, l’Europarlamento aveva già espresso parere positivo nel 2011, ma la legge si era incagliata su un blocco di minoranza esercitato da Gran Bretagna, Francia e Germania.

    La prima occasione per dibattere delle due questioni sarà il consiglio Ambiente del 13 dicembre. E la richiesta di autorizzazione per il TC 1507, che arriverà sul tavolo dei ministri accompagnato da sei pareri positivi rilasciati negli anni dall’Autorità europea per il controllo alimentare (Efsa), potrebbe spianare la strada ad altre sei richieste di autorizzazione.

    Tra le pendenze c’è anche quella di rinnovo presentata da Monsanto per il mais 810, ora coltivato in cinque Stati membri, con estensioni importanti in Spagna e Portogallo: unica coltivazione Ogm attualmente condotta in Europa, dopo che la Basf ha gettato la spugna per la patata «monstre» Amflora. Critiche le posizioni degli ambientalisti, con Greenpeace che accusa la Commissione di «agire in modo irresponsabile» raccomandando l’approvazione di una coltura Ogm «già nota per i danni a farfalle e falene e che incoraggia l’uso dilagante di un erbicida così tossico che è già in fase di eliminazione nella Ue».

    E l’apertura di Bruxelles sul TC 1507 non piace alla Cia-Confederazione italiana agricoltori «deve essere respinta», dicono. «Rappresenterebbe l’ennesima sconfitta per l’Europa, per i suoi cittadini, per i suoi produttori agricoli».

CLIMA/ E’ iniziata la catastrofe climatica

http://www.ecofisica.net/index.php?option=com_content&view=article&id=311:e-iniziata-la-catastrofe-climatica&catid=46:01climate

 

IL FENOMENO
La potenza del vapore. Perché questo ciclone è stato tanto devastante


Sull’Oceano Atlantico, Pacifico e Indiano si scatenano tradizionalmente i cicloni tropicali. Haiyan che ha investito le Filippine è davvero un fenomeno da record? 
Sì perché per la sua intensità ha raggiunto la categoria cinque della scala Saffir-Simpson con venti intorno ai 320 chilometri orari. In questo estremo violento e pericoloso della scala si collocava anche l’uragano Kathrina che nel 2005 investì il sud degli Stati Uniti, in particolare New Orleans, provocando 1.800 vittime. «Con una simile forza distruttiva se ne contano pochi, circa uno all’anno e anche meno – dice Guido Visconti, direttore del centro fenomeni atmosferici estremi dell’Università dell’Aquila -. Complessivamente dal 1924 al 2007 ne sono stati registrati 32 incluso Kathrina in un’ annata che ha visto addirittura cinque fenomeni del genere». Anche Sandy l’anno scorso negli Stati Uniti raggiunse livelli analoghi mentre la maggior parte arriva al quarto grado.


Come mai si formano questi fenomeni nell’atmosfera e con quale frequenza? 
Nelle tre grandi aree oceaniche se ne contano complessivamente una sessantina all’anno con varia intensità e con diversi nomi a seconda delle zone (uragano, tifone o ciclone) ma sono tutti cicloni tropicali. La causa è la rilevante differenza di temperatura tra le acque oceaniche tropicali che superano anche i 35 gradi centigradi e la bassa temperatura in quota nella troposfera (10-12 chilometri) intorno ai 50 gradi sotto lo zero. Più è notevole la differenza, maggiore è la forza distruttiva del ciclone perché aumenta la velocità dei venti. La maggior quantità di vapore che si genera alimenta il processo. Tuttavia oltre la differenza di temperatura possono influire altri fattori come per l’Atlantico, ad esempio, contribuisce il trasporto di sabbia dall’Africa. 
A seconda delle aree, inoltre, il fenomeno ha una sua stagione e in quella delle Filippine (Ovest Pacifico) si manifesta da luglio a novembre. «Ora ci dovrebbe essere un’attenuazione – afferma Visconti – invece è accaduto il contrario e quindi siamo davanti ad una anomalia».


Dopo la nascita come si comporta un ciclone tropicale e quanto può durare nel tempo? 
La vita media dei cicloni più violenti è intorno a tre giorni ai quali bisogna aggiungere un periodo che può arrivare anche a dieci giorni necessari per sostenere la crescita. Haiyan nella sua traiettoria verso il Vietnam ora si sta estinguendo come accade per tutti gli uragani quando raggiungono le coste proprio perché la temperatura del suolo non è più così elevata. A quel punto la velocità del vento diminuisce e il fenomeno scende nella classificazione diventando una tempesta tropicale.

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Ma il riscaldamento globale della Terra può essere la causa dell’intensificazione dei cicloni? 
Il loro numero non sembra cambiato nelle statistiche, però è sicuramente aumentata la loro intensità. Alcuni scienziati attribuiscono la colpa al riscaldamento del nostro pianeta. «Purtroppo, però, – nota Visconti – non abbiamo ancora dati certi per confermarlo. I circa quaranta modelli teorici che si utilizzano per valutare la questione non forniscono la necessaria garanzia». Tuttavia i danni provocati sono in aumento. Oggi solo per gli Stati Uniti si calcola una perdita di nove miliardi di dollari all’anno e questo valore secondo le stime dovrebbe elevarsi a 30 nel 2100. Tenendo poi conto del riscaldamento globale la stessa cifra salirebbe addirittura a 42 miliardi di dollari.

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Quindi, guardando verso il futuro, quali possono essere le prospettive immaginabili? 
Non positive. Intanto l’innalzamento delle acque marine dovuto al riscaldamento globale estenderà le aree nelle quali i cicloni possono far sentire i loro effetti distruttivi. Negli ultimi decenni il sistema delle infrastrutture si è espanso ma è diventato anche più vulnerabile. Tenendo poi conto che l’urbanizzazione nei continenti è sempre più concentrata lungo le coste queste si presentano come future aree più a rischio. Sul piano scientifico, pur essendo accertato un aumento della temperatura, la discussione è sempre molto accesa. I ricercatori del Mit danno la colpa al riscaldamento globale. Invece gli scienziati della Noaa sono più prudenti.

10 novembre 2013

 

TAV/ La Serracchiani non dà parere

Ecco qua il meglio di debora

 

http://www.regione.fvg.it/rafvg/comunicati/comunicato.act?dir=%2Frafvg%2Fcms%2FRAFVG%2Fnotiziedallagiunta%2F&nm=20131110104125001

 

notizie dalla Giunta

10.11.2013 10:41

 

TAV: DA GIUNTA VIA LIBERA A TRE INTERVENTI STRATEGICI

 

MA NON ESPRIME PARERE DI COMPATIBILITA’ AMBIENTALE SUL PROGETTO PRELIMINARE PER LA TRATTA RONCHI-TS
Trieste, 10 nov – La Giunta regionale non esprime parere di compatibilità ambientale sul progetto preliminare complessivo della nuova linea ferroviaria Alta Velocità/Alta Capacità per la tratta Ronchi dei Legionari-Trieste, presentato da Italferr S.p.A., ma dà il “via libera”, con alcune prescrizioni, a tre interventi specifici compresi nel progetto, ritenuti strategici per il sistema dei trasporti del Friuli Venezia Giulia: il Bivio di San Polo a Monfalcone, la stazione ferroviaria davanti al polo intermodale dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari, le interconnessioni in località Bivio di Aurisina.
Si chiede inoltre a Italferr che venga sviluppata un’alternativa per quanto riguarda, in particolare, la tratta Bivio San Polo-Bivio di Aurisina e la tratta Bivio di Aurisina-Trieste, anche in considerazione di eventuali sviluppi di futuri progetti infrastrutturali concernenti la rete dei trasporti della confinante Repubblica di Slovenia, prima della realizzazione del progetto definitivo.
È quanto deciso nell’ultima riunione di Giunta, su proposta degli assessori all’Ambiente, Sara Vito, e alle Infrastrutture, Mariagrazia Santoro. Si è deciso di non esprimere il parere di compatibilità ambientale sul progetto complessivo di fronte alle “carenze documentali evidenziate e al permanere dello stato di incertezza e di insufficiente conoscenza in merito alle potenziali criticità indotte dal progetto”.
Per quanto riguarda le prescrizioni, Italferr dovrà predisporre, per ciascuno dei tre interventi puntuali, un Piano di monitoraggio sistematico dei fattori inquinanti, da sottoporre all’ARPA (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente). Per San Polo, in particolare, si chiede a Italferr di sviluppare una semplificazione progettuale, che consenta una riduzione degli impatti con una contestuale ottimizzazione della rete (utilizzo dei binari esistenti) anche in funzione del collegamento con il Porto di Monfalcone, mediante per esempio una soluzione a scavalco.
Per la stazione davanti al polo intermodale di Ronchi, Italferr dovrà porre particolare attenzione in fase di cantiere a non interferire con le aree relative ai laghetti di Dobbia e curare le opere di ripristino del verde, eseguendo la manutenzione nei cinque anni successivi rispetto alla chiusura dei lavori.
Infine, per l’interconnessione nei pressi di Aurisina, le opere dovranno essere limitate ai tratti superficiali e a quanto strettamente indispensabile, tenendo comunque in considerazione le alternative di tracciato proposte e le misure di mitigazione previste. Dovranno inoltre essere analizzate possibili soluzioni per il mantenimento delle caratteristiche architettoniche di manufatti eventualmente vincolati da un punto di vista storico-architettonico.
ARC/PF

 

 

CIE DI GRADISCA: rassegna stampa del 09/11

Il Piccolo

«Il Cie di Gradisca non va riaperto”

di Gianpaolo Sarti wTRIESTE Il centrosinistra fa quadrato e dichiara la sua netta opposizione all’ipotesi di una riapertura del Cie di Gradisca. La presa di posizione è emersa ieri nel corso di un convegno a Trieste dedicato alla situazione in cui versano i centri in Italia e in Europa. Al dibattito, proposto dall’associazione culturale “Spaesati”, hanno preso parte l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), gli organizzatori della campagna nazionale “Lasciateci entrare” e il Consorzio italiano di Solidarietà (Ics). Dopo i fatti che hanno portato allo sgombero e alla chiusura della struttura, devastata dagli ospiti, Pd e Sel hanno sposato la stessa linea politica sul futuro dell’ex caserma Polonio: la Regione non consentirà di ripetere l’esperienza del Cie, una realtà definita senza mezzi termini “disumana, inutile e costosa” a cominciare dal mondo dell’associazionismo presente ieri in sala. «La situazione è disastrosa, tutto è bruciato – ha affermato Silvana Cremaschi (Pd), che in mattinata aveva preso parte a un sopralluogo all’interno del sito -. Non vogliamo più un Cie qui né nel resto d’Italia, tutte le regioni dovranno opporsi. A Gradisca il ministero dell’Interno non stava garantendo il rispetto dei diritti umani e la Regione ha il dovere di vigilare perché è responsabile di tutti i cittadini che sono nel suo territorio». Il Pd propone la trasformazione dell’ex caserma in un Cara, ma sul modello di Centro Balducci di Zugliano: «Una trasformazione completa – ci tiene ad evidenziare ancora Cremaschi – creando spazi davvero vivibili». D’accordo Franco Codega: «Soluzioni come il Cie sono inefficaci, devono essere assicurate condizioni di vita nell’assoluto rispetto dei diritti umani». Da Sel, presente al dibattito con la deputata Serena Pellegrino, i consiglieri Stefano Pustetto e Giulio Lauri, una netta condanna all’esperienza di Gradisca. «La politica ha fallito, una struttura del genere non può più riaprire perché quel luogo è uno strumento punitivo» ha evidenziato Pustetto. Pellegrino si è soffermata «sul giro di affari di milioni di euro che il ministro Alfano si guarda bene dal fermare. Il Cie è una macchina da soldi sulla pelle delle persone». «Gradisca è la peggiore d’Italia, ma dobbiamo riflettere su tutti i centri di detenzione del Paese e del continente», ha rilevato Gianfranco Schiavone (Asgi). «E non è affatto dimostrato che siti di questo tipo siano efficaci rispetto all’obiettivo finale, cioè l’espulsione (solo l’1% viene rimpatriato, ndr) – gli ha fatto eco Alessandra Capodanno, che coordina la campagna internazionale “Open Access Now” -. Noi continuiamo a impegnarci per rivendicare il diritto di accesso ai centri. Ne abbiamo visitati 56 in 13 Paesi Ue. L’accesso deve essere incondizionato e non per accompagnare i parlamentari in visite guidate». Una ricerca di Grazia Naletto (Lunaria), infine, ha analizzato anche la spesa dello Stato per Cie, Cpsa, Cda e Cara. «Limitandoci ai documenti accessibili, tra il 2005 e il 2011 l’Italia ha impiegato oltre 1 miliardo di euro»

La visita nell’ex caserma Polonio devastata: «Roma non pensi che basta una verniciata»

 

Un luogo devastato, zero ospiti al suo interno, un presidio ridotto di forze dell’ordine, gli operatori della Connecting People che rischiano il posto di lavoro. È lo scenario che si è presentato davanti ai consiglieri regionali Giulio Lauri (Sel), Silvana Cremaschi e Diego Moretti (Pd) che ieri mattina – rispetto al divieto per i giornalisti – hanno potuto visitare ciò che resta dell’ex Polonio. Una visita programmata prima ancora della clamorosa decisione del Viminale di azzerare il centro. «Il Cie è completamente inagibile, e dopo averlo visto si fa fatica a capire come nella zona rossa rimanga la capienza teorica dichiarata di 18 posti: noi non abbiamo visto alcun ambiente in cui la permanenza di esseri umani possa avvenire in condizioni igienico-sanitarie e di civiltà adeguate a garantire i più elementari diritti» raccontano i consiglieri. Al di là dei danni collegati alle ultime proteste l’impressione è quella di «un luogo non riformabile in quanto costruito con criteri peggiori di un carcere. Ci auguriamo che nel governo nessuno pensi che basti dargli una riverniciata o ristrutturarlo per poi riaprirlo». Il riferimento è all’ipotesi di rinconversione del Cie in Centro di accoglienza, ampliando le funzioni del vicino Cara così come ipotizzato da Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani. Un pensiero dei consiglieri anche per gli operatori: «Lo Stato oltre a pagare gli operatori deve rispettare integralmente il contenuto di contratti e convenzioni e non deve lasciarli in strada» (l.m.)

Foto e report del presidio sotto il carcere di Gorizia

gorizia9nov2013carcere

 Al presidio davanti al carcere di Gorizia,  tenutosi sabato 9 novembre hanno partecipato una trentina di compagne e com

pagni arrivate dai quattro angoli del FVG. 
Gazebo, Striscione, Volantinaggio.
Tanta polizia, carabinieri, digos.
E Bomba d’Acqua

Vento, Tuoni, Fulmini e Saette 
Nubifragio!

Che ha impedito l’arrivo dell’impianto e ha fatto scappare
utt* dopo le 18.
La presenza è durata circa un’ora e mezza.

 

UDINE/ Processo NO TAV 10 febbraio 2014

E’ stata fissata la data del processo per l’opposizione al decreto di condanna 10/02/14

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processo no tav-01

 

processo no tav-02

NO TAV: manifestazione popolare in Valsusa sabato 16 novembre

Importante appuntamento al quale saranno presenti, come molte altre volte, anche compagni/e della regione.

Qui sotto l’articolo in uscita su Umanità Nova.

 

 

Susa 16 novembre. Manifestazione popolare No Tav

Non possono bruciare i nostri cuori

Fiamme al Picapera

Il presidio Picapera di Vaie non c’è più. Intorno alle 11 di venerdì 1 novembre è stato dato alle fiamme. Venne costruito alla fine del 2010, nella stagione di resistenza alle trivelle, per impedire un sondaggio geognostico. In questo stesso luogo dovrebbe spuntare il treno, dopo un lungo tratto in galleria. Il presidio era diventato punto di riferimento per la gente di Vaie e per tutta la vasta comunità No Tav.

Il movimento ha immediatamente respinto al mittente la solidarietà pelosa dei parlamentari Si Tav Esposito e Napoli, dichiarando che i mandanti dell’incendio erano tra le file del governo, che appoggia e foraggia la lobby del cemento e del tondino, che ha fatto guadagni enormi con le grandi opere inutili finanziate con i soldi di tutti. Le amicizie tra il ministro della giustizia Cancellieri e la famiglia Ligresti, oggi sotto i riflettori dei media, non sono che l’ultimo esempio di una politica che, all’indomani del terremoto che ha pensionato la prima repubblica, ha individuato nell’alta velocità ferroviaria il canale dal quale attingere denaro senza correre rischi.

Un sistema pulito, semplice, basato sulla complicità bipartisan della destra e della sinistra, che solo in Val Susa ha incontrato l’unico grosso intoppo possibile: un grande movimento popolare, sordo alle lusinghe e forte di fronte alle minacce e alla repressione.

Quello di Vaie è il terzo presidio No Tav andato a fuoco. Prima era toccato a quelli di Bruzolo e Borgone. Quello di Borgone venne ricostruito subito, quello di Vaie lo sarà presto. Dopo la manifestazione popolare del 16 novembre, sia che la magistratura abbia tolto i sigilli, sia che non li abbia tolti, i lavori di ricostruzione riprenderanno.

È l’impegno preso dal comitato No Tav di Vaie, durante la fiaccolata per le vie del paese svoltasi domenica 3 novembre. Migliaia di No Tav sono scesi a Vaie per rafforzare il legame di solidarietà che unisce nella lotta chi resiste al supertreno. Chi resiste all’idea che questo mondo, queste relazioni sociali siano le uniche possibili.

Il giorno precedente, di fronte alle pareti annerite del presidio di Vaie, c’è stato il ricordo di Pasquale Cicchelli, un No Tav rispettato ed amato per il suo impegno nella lotta, prematuramente scomparso due giorni prima.
La magistratura torinese, per dimostrare la propria imparzialità, ha inviato avvisi di comparizione come persone informate sui fatti a numerosi ragazzi di Vaie, tutti No Tav. Una evidente provocazione mirante ad accreditare la tesi che gli incendiari siano tra gli oppositori alla Torino Lyon.

Processi superveloci e crepe nella magistratura: le dimissioni di Caselli

I processi contro i No Tav hanno una corsia privilegiata rispetto agli altri. Quello per lo sgombero della Maddalena e l’assedio del 3 luglio continua in aula bunker con l’esibizione dei poliziotti di servizio in quelle giornate. La tesi è sempre la stessa: attacco paramilitare, gruppi organizzati, violenza. I violenti pestaggi dei manifestanti arrestati, documentati da un video, i lacrimogeni che, oltre a intossicare, hanno ferito chi ha avuto la ventura di intercettarne le curiose parabole, spariscono dalle pittoriche descrizioni di un vice commissario dalla carriera in declino come quella di Massimo D’Alema, il suo referente politico di sempre.

Il lavoro della Procura è incessante su ogni fronte: in questi giorni sono arrivati avvisi di garanzia a No Tav accusati di aver spostato dei jersey che impedivano il passaggio dei manifestanti nel 2011.

Piccole crepe si stanno aprendo anche nel fronte della magistratura.

Le dimissioni da Magistratura Democratica di Giancarlo Caselli, il Procuratore capo di Torino, per ben due volte confermato nell’incarico nonostante il raggiunto limite di età, sono il segnale di un malessere che ha oltrepassato i confini della società civile per investire la stessa magistratura.

Casus belli la pubblicazione sull’Agenda 2014 dell’associazione di un articolo di Erri De Luca titolato “Notizie su Euridice”. De Luca in questo pezzo, più poetico che politico, racconta gli anni Settanta dalla parte dei perdenti, di quelli che si ritrovarono sui banchi degli imputati, quando la pubblica accusa era in mano a magistrati democratici e di sinistra come Giancarlo Caselli.

Intollerabile per il Procuratore della Repubblica, nonostante Magistratura Democratica abbia pubblicato il pezzo di De Luca con una nota introduttiva, in cui prende le distanze dalla “violenza” in ogni sua forma. Ma ben più intollerabile e, forse, all’origine vera delle dimissioni dall’associazione che aveva contribuito a fondare, è la notizia, per ora non esplosa sui media che proprio Magistratura Democratica promuoverà un convegno sui processi No Tav che si svolgerà all’interno del Palagiustizia di Torino. Uno schiaffo a mano aperta al Procuratore che più si stava spendendo per ottenere condanne contro il movimento di resistenza alla Torino Lyon.

Tanto intollerabile che l’11 novembre Caselli ha annunciato le proprie dimissioni da Procuratore: dal 28 dicembre andrà in pensione con cinque mesi di anticipo sulla scadenza dell’incarico, fissata al 9 maggio.

Assedio al Napoleon

Susa. Nella serata di martedì 5 novembre circa 150 No Tav hanno dato vita ad una manifestazione a sorpresa davanti all’hotel Napoleon, che ormai da anni ospita le truppe di occupazione di stanza a Chiomonte. Per due ore e mezza, tra slogan e canti partigiani, gli attivisti hanno aperto uno striscione con la scritta “via le truppe di occupazione” di fronte all’ingresso principale dell’albergo.
Sul retro si è attestato un altro gruppone. I carabinieri, comandati dal capitano Pieroni, che ha sostituito da qualche mese Mazzanti sulla piazza di Susa, hanno atteso inutilmente i rinforzi. Il gran dispiegamento di polizia per la partita Juventus Real Madrid ha evidentemente reso più difficili gli spostamenti di truppe.
Così il cambio turno al cantiere fortino è saltato. Un granello di sabbia nell’ingranaggio della macchina dell’occupazione militare.
Continuano in valle e a Torino le assemblee popolari: dopo quelle di Susa e S. Ambrogio ce ne sarà una a Torino e una ad Almese.

Il prossimo, importante, appuntamento è il corteo No Tav del 16 novembre a Susa.

Possono bruciare i presidi, ma non possono bruciare i nostri cuori. Queste parole erano scritte sullo striscione che apriva la fiaccolata, svoltasi dopo l’incendio del presidio di Vaie.

Lo striscione era retto tenuto dai bambini e dai ragazzi di Vaie. La lotta va avanti.

Vi aspettiamo numerosi a Susa sabato 16 novembre.

Appuntamento davanti alle 13 alla Stazione per un corteo che attraverserà i luoghi della lotta e dell’occupazione militare.