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La TAV spacca il fronte dei sindaci

da il piccolo del 11/12/13

La Tav spacca il fronte dei sindaci

SAN GIORGIO DI NOGARO Cresce la polemica sul tracciato della Tav e il fronte dei sindaci si spacca. E il vicepresidente del consiglio regionale, Paride Cargnelutti, lancia una proposta: nessun quadruplicamento della linea ferroviaria esistente, no al tracciato Tav Illy-Sonego, si al progetto dell’eurodeputato del Ppe, Antonio Cancian. Cargnelutti ha incontrato Cancian a margine del convegno sulla piattaforma logistica del Fvg dove si è fatto il focus sul ruolo della regione in relazione ai Corridoi europei. In quell’occasione l’eurodeputato ha esposto le importanti novità sul tracciato dell’Av/Ac che passerà in regione e nella Bassa. «Con l’onorevole Cancian – commenta Cargnelutti – avevamo affrontato già ad ottobre la questione assieme agli amministratori locali. In meno di due mesi sono emerse delle importanti novità relative al tracciato dell’Av/Ac che attraverserà la Bassa e vanno nella direzione che auspicavamo. In più occasioni e anche in Consiglio regionale ho espresso contrarietà al quadruplicamento della linea che avrebbe devastato questo territorio. Gli ultimi studi aggiornati di Cancian, invece, ci presentano la possibilità, con gli opportuni adeguamenti tecnologici, di ottenere il transito delle merci e l’alta velocità passeggeri migliorando l’attuale linea ferroviaria. Il corridoio che taglia la Bassa insieme al tracciato che da Venezia arriva a Udine via Conegliano-Pordenone hanno, con opportuni interventi, già i quattro binari necessari per l’Alta capacità delle merci (tratto Ve-Pn-Ud) e delle persone (tratto costiero Ve-Ts). Le velocità di trasporto rientrano nei parametri minimi richiesti dall’Ue che non devono essere al di sotto dei 160 e 200 km/h. Questo studio – spiega – risolve il contenzioso di questi anni e non stravolge l’ambiente: l’unica tratta da migliorare sarà la Udine-Cervignano. In termini di costi l’intervento è fattibile: si passerebbe dagli oltre 7 miliardi di euro previsti a un miliardo. Questa ipotesi ha già avuto parere favorevole da parte di TreniItalia che sarebbe pronta ad intervenire in tempi rapidi. L’Europa, come ha spiegato Cancian, ha già dato l’ok alla programmazione e predisposto un ammontare economico per tutti i progetti che verranno presentati. Ora tocca alle amministrazioni locali e alla Regione non perdere la coincidenza con questa opportunità di crescita. La pianificazione del precedente tracciato Illy-Sonergo risulta superata liberando vincoli urbanistici».(f.a.)
 

Anche a Pordenone alla rivoluzione su appuntamento “spuntano” i fascisti

Anche a Pordenone alla rivoluzione su appuntamento “spuntano” i fascisti

10 dicembre 2013 alle ore 19.37

Chi aveva seguito le sigle e i contenuti che avevano dato il via alla fantomatica “rivoluzione” del 9 dicembre già sapeva l’impronta nazionalista e fascista della protesta.
Bastava conoscere i referenti nazionali, regionali o provinciali di questo fenomeno e in particolare quello dei “Forconi” per scoprire che dietro c’era Forza Nuova con suoi uomini (che ha per altro aderito ufficialmente come partito) ma anche altri gruppi neofascisti, come quello di Casa Pound, han deciso di non farsi scippare il giocattolo. 
Nonostante questo e dopo essere stati smascherati a più riprese in molti han fatto di tutto per negare l’evidenza e far passare l’idea che non c’entrano destra e sinistra, soprattutto sapendo che una connotazione troppo ideologica avrebbe allontanato molti insofferenti.
In mezzo infatti c’erano diverse persone, organizzate e non, spinte da rivendicazioni corporative o populiste (bottegai, imprenditori, associazioni di categorie) ma quello che più interessava era far abboccare tante altre persone in buonafede tra l’esasperato e l’insofferente verso le “caste” e lo strozzinaggio economico. 
Purtroppo non è mai buona cosa affidarsi in modo qualunquista a iniziative che inneggiano a “rivoluzioni” nazionaliste, soprattutto con l’idea che ciò che unisce non sono interessi di classe e di giustizia sociale ma di “sangue e suolo”; la storia insegna come va a finire: il popolo bue cambia padroni, questi conservano privilegi e interessi ma il popolo rimane mazziato.
D’altra parte molti dei padroni e padroncini nostrani sono almeno 20 anni e più che delocalizzano dove i salari sono da fame o assumono migranti perché privi di diritti e ricattabili col permesso a scadenza per pagarli meno, ed ora sostengono che gli interessi di quei lavoratori, licenziati per spostare i capitali all’estero e di quelli che rischiano in massa lo stesso destino, sono gli stessi loro in nome dell’italianità. 

Tornando in provincia, all’appuntamento rivoluzionario per ora non si son presentati in molti e andando a verificare scopriamo quanto già si sapeva.
Tra gli amministratori del gruppo FB “Coordinamento 9 dicembre 2013 Pordenone” c’è ad esempio tal Vittorio Roncaglia che fa sapere di aver studiato presso “il Duce”. 
Il pomeriggio in P.tta Cavour per tutta le giornate fin’ora a gestire il gazebo c’erano gli striscioni e i militanti di casapound italia, i cosiddetti “fascisti del 3° millennio” che han sostituito, su direttiva romana, il loro simbolo con la bandiera italiana.
Tra le proposte che emergono nei punti programmatici degli appelli di questa “rivoluzione” a scadenza c’è anche l’instaurazione di un regime militare, transitorio pare.

E’ evidente che quelli che scelgono di stare in mezzo a questa canea nazional-reazionaria o sono completamente sprovveduti o sono complici d’idee che hanno segnato le pagine più vergognose e sanguinose della storia di questo paese.

Coordinamento Antifascista e Antirazzista pordenonese

UDINE/ Comunicato del Collettivo Makhno sui forconi

O DISCRIMINANTE ANTIFASCISTA O STRUMENTALIZZAZIONI NEOFASCISTE:

AI FORCONI LA SCELTA

Udine, 9 dcembre 2013, fascisti in piazza: senza discriminante

antifascista è l’unica cosa che i forconi possono ottenere

10.12.2013

Strilli e populismi (e nuovi vecchi fascismi) sono arrivati anche a Udine, cercando di strumentalizzare già da tempo, ma senza molto successo, tematiche di movimento, come il diritto allo studio, l’ambientalismo, l’animalismo (con i neofascisti di CasaPound e della Foresta che Avanza in Piazza Libertà il 23 marzo 2013, davanti al silenzio complice della “sinistra” bene che siede in comune e poi si fa viva il 25 aprile), disuguaglianza sociale… (Recentemente ci hanno provato anche col Muos in Sicilia, ricevendo un calcio in faccia dalle/dai compagn* del Movimento No Muos).

Perché è di questo che parliamo. Di chi nasconde razzismo dietro tricolori, antisemitismo dietro discorsi contro le banche, fasci littori dietro… forconi.

Stiamo parlando dei populisti che dall’8-9 dicembre stanno dando la possibilità a neofascisti e neonazisti (Forza Nuova ha dato ufficialmente il suo sostegno) di utilizzare la crisi per propagandare la loro disgustosa ideologia, come fece Hitler nella Germania in crisi degli anni ’30 e come sta succedendo in Grecia e Ungheria. Dietro sipari inconsistenti come l’“apoliticità” (sic) si nasconde il tentativo di legittimare fascisti e fascismo, come se fosse rispettabile al pari delle altri ideologie.

Tutto questo si è visto ieri a Udine quando un manipolo di fascisti e ultrà nazisti (con grida contro i “comunisti” che evidentemente sono sempre nei loro pensieri anche quando non ci sono, e con urla come “A Roma hanno dato fuoco al campo nomadi! E’ vero! Era ora!”, a cui nessuno, nemmeno grillin* e “cittadin*” varie/vari, ha risposto) hanno preso in mano le redini della manifestazione in Piazzale Osoppo con scontri verbali con gli organizzatori, e bloccando le strade, farsescamente, spostandosi non appena gli veniva ordinato dai loro camerati (ma questi ultimi invece in divisa), per poi cambiare strisce pedonali da “bloccare”. A poco è servito evidentemente scrivere nel volantino degli organizzatori “Non è ammessa alcuna forma di discriminazione in merito a religione, ideologia politica, regione di appartenenza e razza” o “Siamo per la riaffermazione dei principi sanciti dalla carta costituzionale”, una carta costituzionale che è antifascista.

Se dopo quanto è successo ieri i forconi (o comunque vogliano farsi chiamare) non porranno la discriminante antifascista non potranno ottenere che questo. O discriminante antifascista o infiltrazioni e strumentalizzazioni fasciste: ai forconi la scelta.

Non sia frainteso e confuso con richieste securitarie quanto stiamo per scrivere (che serve solo a sottolineare il nostro odio verso i fascisti, con o senza divisa), ma fa pensare vedere da un lato quattro furgoni pieni di celerini per una manifestazione di compagn* contro le aggressioni indiscriminate della polizia e dei carabinieri a Udine contro ragazz* e anarchiche/anarchici, e dall’altro una manciata di vigili urbani e carabinieri (nemmeno in tenuta anti-sommossa) davanti a decide di fascisti che hanno fra l’altro fatto fuggire molt* manifestanti non fascist* nella fese finale del corteo. Questo per restare a Udine, per non parlare poi degli sbirri in altre parti d’Italia che sfilano in corteo senza casco e dispensando baci insieme ai loro camerati… O era solo prassi comune, come pretenderebbe di farci credere la questura? A Roma abbiamo visto cose molto diverse. “Tutti insieme!”, strillavano i populisti, eccitati. “Siamo con le forze dell’ordine”, aggiunge il buffone Grillo. No, noi non staremo mai dalla parte degli assassini di Carlo Giuliani, Cucchi, Frapporti, Aldrovandi, Uva… Giuseppe Pinelli, il cui omicidio di stato ricorre proprio in questi giorni.

In ogni caso, nulla di cui stupirci.

Ma anche a Udine è successo anche questo.

Però in fondo come dicono le/i grillin* (Grillo aprì a CasaPound e si è espresso con frasi sessiste e contro i “clandestini”, per non parlare dell’intervento pentastellato di mesi fa in parlamento che quasi lodava Mussolini…) perché dividerci? Dai, tutt* unit* per manifestare!

Ma manifestare per cosa? Per cosa manifestano tutte queste persone per nulla affette dal “cancro” (per loro) della consapevolezza ideologica?

Per ottenere uno stato di polizia, cioè una dittatura militare! Sembra uno scherzo, ma a dichiararlo è stato lo stesso Danilo Calvano, leader del movimento del 9 dicembre.

E non pensiamo ci sia altro da aggiungere, se non che la vera lotta è quella di chi tutti i giorni combatte contro l’oppressione, di chi combatte contro un dominio fatto di stato, capitale, polizia e grandi opere inutili e mafiose, come i quattro compagni anarchici No Tav lombardi e piemontesi accusati di “terrorismo” a cui va tutta la nostra complice solidarietà.

La Lotta non si arresta!

La Resistenza non si arresta!

Tutte libere, tutti liberi!

 

Collettivo Makhno

Forconi. Un’analisi da Torino

Forconi a Torino. I figli del deserto

 

torino piazza castello 9 dicDecodificare quanto è accaduto a Torino nell’ultima settimana non è facile. Specie se lo si fa con lo sguardo interessato di chi sceglie un punto di vista di classe, di chi ha l’attitudine alla partecipazione diretta, di chi mira alla costruzione di esperienze di autogoverno territoriale fuori tutela statale, definendo uno spazio e un tempo capaci di attraversare l’immaginario sociale, facendosi pratica concreta.

 

Nella sinistra civilizzata e di governo c’è da decenni un netto disprezzo per l’Italia a cavallo tra Drive in e il presidente operaio e puttaniere. L’Italia che si è affidata per vent’anni ad un partito capace di attuare politiche ultraliberiste, garantendo altresì la sopravvivenza di figure sociali che altrove la globalizzazione ha spazzato via: commercianti, artigiani, padroncini, agricoltori su scala familiare o con pochi dipendenti.

 

La settimana precedente quella del 9 dicembre, il governo, intuendo la miscela esplosiva che si stava preparando, ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni degli autotrasportatori, mentre la moderatissima Coldiretti ha organizzato la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti i camion con la benedizione del ministro. Dopo i blocchi e le “perquisizioni” sulla A32 durante l’estate No Tav, Alfano ordinò cariche, arresti e l’invio di altri 250 militari in Clarea. Evidentemente questo governo, soprattutto nella sua componente di destra, mira a evitare lo strappo con alcuni dei propri settori sociali di riferimento, concedendo spazi di manovra negati ad altri.
La sinistra civilizzata, nei brevi periodi in cui è riuscita a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione mattone su mattone di ogni forma di tutela per il lavoratori dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati. In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede 500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono le statistiche – che non hanno né un lavoro né un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di disoccupazione.

 

Nelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli istituti professionali.

 

 Nella sinistra intorno alle giornate di lotta indette dal “coordinamento 9 dicembre” si è sviluppato un dibattito molto ampio, spesso anche aspro.

 

Di fronte all’ampiezza della partecipazione, alcuni hanno osservato che era difficile che il mestolo stesse in mano alla destra cittadina. A Torino sia la Destra istituzionale – Fratelli d’Italia – sia chi – come Forza Nuova e Casa Pound – vive nel limbo tra istituzioni e velleità rivoluzionarie – non avrebbero un peso ed una capacità organizzativa tali da poterlo fare.

 

Un fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i rappresentanti di queste formazioni si sono fatti vedere più volte accolti dagli applausi della gente. Come è certo che buona parte delle tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall’estrema destra. In almeno un caso un esponente di “Alba Dorata” è stato cacciato dal blocco di piazza Derna grazie alla presenza di esponenti di sinistra, che avevano deciso di partecipare all’iniziativa. È tuttavia un caso isolato che non cambia il quadro. Anche la favola dei profughi africani, accolti con un applauso da quelli del “coordinamento 9 dicembre” è stata è stata ampiamente sfatata da resoconti circolati successivamente.
La questione è comunque mal posta. Qualunque sia stato il peso della destra, nelle sue varie componenti, la domanda vera è un’altra. Il movimento che si è espresso nelle piazze in un garrir di tricolori, inviti alla polizia a fraternizzare, richiami all’unità della nazione contro la casta corrotta e asservita ai diktat dell’Europa delle banche è un movimento di destra o no?
Noi pensiamo di si.

 

I resoconti fatti girare dalla sinistra radicale torinese hanno privilegiato l’immagine di piazze ambiguamente acefale: prive di capi, prive di organizzazione, prive di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti lì. Una sorta di creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e dirigere. Una descrizione a mio avviso inconsapevolmente intrisa di orgoglio intellettuale e del mai sopito sogno di poter governare o alimentarsi delle jacquerie. Alcuni ne hanno assunto il mero contenuto antisistema, nella vecchia convinzione che il nemico del tuo nemico è un tuo amico. Una mostruosità ideologica che abbiamo visto annegare nel sangue tra Baghdad e Kabul ma sinora non ci aveva toccato da vicino.

 

Bisogna  guardare in faccia la realtà. Una realtà che certo non ci piace, ma il mero desiderio di vederla diversa non si concreta, se non la si sa vedere per quello che è. I protagonisti di questi giorni di blocchi e serrate sono i figli del deserto sociale degli ultimi trent’anni. Gente che credeva di avere ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla. 
L’analisi della composizione di classe di questo movimento, della sua natura popolare, periferica,perché avvertivamo forte la necessità di capire ed intervenire per poter fermare l’onda lunga di destra che ha messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura ed un orizzonte progettuale.

 

Siamo andati nelle piazze e nei bar ad ascoltare e capire il vento che stava cambiando, perché in periferia, tra i mercati e le strade attraversate dai cortei per l’ordine e la legalità, tra la gente che fatica a campare e non vede prospettive, ci siamo da anni. Da anni sappiamo che l’incapacità di parlare con gli italiani poveri, quelli che guardano con simpatia alla destra xenofoba e razzista, quelli che avevano qualcosa e ora hanno solo paura, avrebbe aperto la strada a chi predica il governo forte, la polizia ovunque, la nazione contro la globalizzazione, l’unione degli italiani, sfruttati e sfruttatori contro il grande complotto internazionale delle banche. Oggi lo chiamano signoraggio: non puntano il dito sugli ebrei ma la melodia della canzone è la stessa dagli anni Trenta del secolo scorso. Gli stranieri di seconda generazione che sventolavano il tricolore con i loro colleghi del mercato, sebbene in realtà pochini rispetto la realtà dei banchi, non ci stupiscono: li abbiamo visti inveire contro altri stranieri, ultimi arrivati che “delinquono”. Molti di loro assumono giovani connazionali poveri e li sfruttano senza pietà così come gli italiani doc. Il gioco del capitalismo piace ad ogni latitudine.

 

I protagonisti di questi tre/quattro giorni di blocchi e iniziative sono ceti impoveriti e rancorosi: l’Italia delle clientele prima democristiane e socialiste, poi forza italiote, oggi piegata dalla crisi, dalla pressione fiscale, dall’indebolirsi della compagine berlusconiana e della Lega, partiti politici di riferimento per oltre vent’anni.

 

Il loro programma – esplicitamente delineato nei volantini tricolori distribuiti in ogni dove – è chiaro: far cadere il governo, sostituirlo con un esecutivo forte e onesto, capace di traghettare l’Italia fuori dall’euro, fuori dall’Europa delle banche, garantendo significative misure protezioniste.
Il tutto all’insegna di una deriva identitaria di segno nazionalista dove la nazione è descritta e vissuta come un corpo sano attaccato da agenti esterni che si ricompone intorno all’alleanza interclassista dei produttori.
Questo è un programma di destra. Di destra radicale.

 

Non sappiamo se l’episodio dei caschi tolti davanti all’agenzia delle entrate di Torino, o l’abbraccio tra un manifestante e un poliziotto a Milano siano solo foto strappate alle realtà, ma resta il fatto che la volontà di fraternizzare con la polizia ha attraversato le varie piazze d’Italia. A Pistoia gli studenti gridavano “celerino, sei uno di noi!”.  La retorica dei lavoratori della polizia, sfruttati e vittime di una classe politica corrotta e parassitaria, è tipica della destra di ogni tempo.

 

È ingeneroso sostenere che la gente “comune” che ha partecipato alle serrate dei negozi ed ai blocchi del traffico non capisse la portata simbolica e reale di un movimento esplicitamente eversivo dell’ordine esistente. In ambito istituzionale chi ha cercato un’interlocuzione si è dovuto arrendere, perché non c’era spazio di mediazione. Oggi forse alcuni del “coordinamento 9 dicembre” pare siano disposti a sedersi ad un tavolo con il governo, ma nella settimana della serrata e dei blocchi non c’è stato, né avrebbe potuto esserci, spazio per il dialogo. Chi è sceso in piazza lo ha fatto perché convinto di fare la rivoluzione: lo dimostrano gli slogan, gli striscioni, i racconti che vengono diffusi.

 

In questo “tutti a casa” c’è chi ha sentito l’eco delle lotte argentine, chi vi ha letto una volontà di rottura dell’istituito che avrebbe potuto aprire delle possibilità.

 

Sappiamo bene quanta forza abbiano i momenti di rottura, la scelta di uscire di casa, di spezzare l’ordine che ci piega alla quotidianità scandita dai ritmi di una vita regolata altrove, tuttavia in quelle piazze  questa forza si è alimentata di simboli che portano lontano da una prospettiva di emancipazione sociale e di libertà.
L’interruzione della quotidianità agita da chi normalmente affida il proprio futuro all’eterna ripetizione del proprio presente è un evento raro, talora foriero di una rottura radicale. Tuttavia la rottura di un ordine non prefigura necessariamente che la strada intrapresa sia quella giusta. 

 

Nell’estrema sinistra c’è chi ha tentato da cavalcare l’onda nella speranza di mutarla di segno. Purtroppo questo tentativo, limitandosi quasi sempre alla spinta per la radicalizzazione delle pratiche di piazza, che tuttavia non ha né saputo né voluto farsi anche critica dei contenuti di estrema destra della protesta, non ha prodotto risultati significativi.

 

L’ipotesi che chi era in piazza esprimesse una ribellione generica senza reale adesione ai contenuti proposti dal Coordinamento 9 dicembre si è rivelata una favola consolatoria. Mercoledì 11 in piazza Castello è bastato che il piccolo caudillo di turno decretasse il “tutti a casa” in attesa di una prossima “marcia su Roma” perché il movimento si sciogliesse, lasciandosi solo una coda di studenti in libera uscita il giorno successivo.

 

Vedere quello che non c’è è frutto di pregiudizio ideologico, quel pregiudizio ideologico che consiste nel formulare una tesi e cercare – a costo di deformarla – la conferma nella realtà. Il prezzo da pagare è una descrizione che cancella la soggettività esplicita di chi parla e agisce, nell’inseguimento di un’oggettività materiale che si suppone possa, se adeguatamente spinta in avanti, modificare di segno la protesta.

 

Articolare un discorso capace di creare legami di classe, al di là delle diverse condizioni normative, fiscali, di reddito è in se difficile. La materialità stessa della condizione dei lavoratori autonomi, nelle sue diverse e distanti articolazioni, lascia poco spazio alla costruzione di percorsi comuni di solidarietà  e lotta con gli altri settori popolari.

 

 Se poi  l’immaginario che sostiene una lotta si articola fuori – e contro – l’orizzonte di classe, non si può far finta che la narrazione di chi agisce una lotta sia irrilevante.

 

A Torino, a blocchi finiti, abbiamo sentito un giovane protagonista delle piazze arringare gli esponenti di un presidio di sindacalisti di base ed esponenti della sinistra post istituzionale, perché si unissero nel segno del tricolore, buttando a mare falce e martello, per salvare la nazione.

 

 Quel ragazzo ci pareva la perfetta incarnazione dello slogan di fondo che ha attraversato piazze, mercati, bar e faccia libro, quell’andare oltre la destra e la sinistra tipico della Nuova Destra, quella meno brutale, più raffinata ma non per questo meno pericolosa.
Quando la nozione di “popolo” sostituisce quella di “classe” non siamo di fronte ad una mera trasposizione politica del tifo da calcio ma all’eterna riproposizione del mito della purezza organica della nazione come corpo sano, dove tutti fanno gerarchicamente la loro parte.
Chi a sinistra sottovaluta l’importanza dei simboli, chi azzarda paragoni con le rivoluzioni della primavera araba, dimentica che tra bandiere nazionali e religione, quelle primavere sono presto declinate verso l’autunno ed il più gelido degli inverni.
Chi frequenta i bar di periferia sa che sesso, calcio, soldi, pioggia sono gli argomenti di sempre, conditi di frizzi, lazzi, scoregge verbali e l’idea che “così va il mondo”. Talora capita che qualcuno  si lasci andare a dichiarazioni roboanti, all’insegna del fuoco e dello spaccar tutto. Poi il bar chiude e la rivoluzione dei rivoluzionari dell’aperitivo viene rimandata al giorno successivo.

 

Se capita che quelli del bar sport escano davvero in strada è un segnale che sarebbe miope non vedere. Ma sarebbe ancora più miope leggere la realtà con gli occhi tristi degli orfani del soggetto sociale.

 

Qualcuno a Torino ha scritto che bisogna affondare le mani nella merda perché dai diamanti dell’ideologia non nasce nulla. Siamo d’accordo. Purché non ci si illuda che fare a mattonate contro la polizia tra chi sventola tricolori possa essere il grimaldello che apre il vaso di Pandora dei propri desideri.

 

(quest’articolo uscirà sul prossimo numero di Umanità Nova)

PORDENONE: blitz contro le case sfitte

pordenonesenzacasa
TROPPE CASE SENZA GENTE, TROPPA GENTE SENZA CASE!

A Pordenone e nella provincia ci sono almeno 30.000 case vuote secondo uno studio fermo al 2011. Nella sola città di Pordenone vi sono circa 5.000 unità immobiliari abitative catastali non occupate. Negli ultimi 5 anni, a causa della crisi che sta mettendo in ginocchio sempre più persone e famiglie, l’indice di morosità è raddoppiato, le procedure sono in aumento del 79%.
Le richieste di esecuzione degli sfratti erano 365 nel 2008, sono arrivate a 687 nel 2012, con un incremento percentuale dell’88,2%. Siamo in piena emergenza abitativa se pensiamo che con la dismissione dell’industria pordenonese e l’indotto che ne deriva migliaia di persone si ritroveranno senza più stipendio o con un reddito da fame. Eppure la speculazione edilizia continua senza sosta, con un lieve ribasso, ma con concessioni di cubature per cementificare ancora al limite della follia.
Per questi motivi abbiamo voluto lanciare una vertenza per una moratoria degli sfratti in città e per la redistribuzione dei locali sfitti a chi ne ha e ne avrà bisogno.
Questa mattina, domenica 15 dicembre, abbiamo monitorato due palazzine, in viale Marconi e Via Montereale, di 10 e 12 appartamenti completamente sfitte! lasciate al degrado eppure ancora perfettamente in grado di accogliere nuclei famigliari.
Una vertenza senza alcuna distinzione fra nazionalità, senza foraggiare la guerra fra poveri, senza alimentare stupidi nazionalismi quando a patire la crisi siamo tutti mentre a lucrarci sopra sono quelli che l’han creata!
Invece che inginocchiarci nei presidi confidando in istituzioni ignave o peggio, illudendosi che nuovi governi dispenseranno prebende come un tempo, tra l’altro ai soliti noti, preferiamo mostrare l’unica strada percorribile qui ed ora: l’autorganizzazione e l’autogestione sociale. Riprendiamoci ciò che ci serve per vivere degnamente, ricreiamo legami di solidarietà sociale!
La rivoluzione si costruisce dal basso e abbatte la cause alla radice, è una forza progressiva ed evolutiva MAI regressiva e reazionaria, indietro non si torna!

VERTENZA CASE PER TUTTI

 

Dal Messaggero Veneto del 16/12/13

Blitz di Iniziativa libertaria Striscioni contro le case sfitte

«A Pordenone e provincia ci sono almeno 30 mila case vuote, secondo uno studio del 2011. Nella sola città vi sono circa 5 mila unità immobiliari abitative catastali non occupate. Negli ultimi cinque anni, a causa della crisi che sta mettendo in ginocchio sempre più persone e famiglie, l’indice di morosità è raddoppiato, le procedure sono in aumento del 79 per cento». Dati resi noti da Iniziativa Libertaria: alcuni suoi esponenti ieri hanno monitorato due palazzine, in viale Marconi e via Montereale, di 10 e 12 appartamenti, completamente sfitte, «lasciate al degrado eppure ancora perfettamente in grado di accogliere nuclei famigliari». Davanti a quei due immobili hanno esposto uno striscione. Le richieste di esecuzione degli sfratti erano 365 nel 2008, sono arrivate a 687 nel 2012, con un incremento dell’88,2 per cento. «Siamo in piena emergenza abitativa se pensiamo che con la dismissione dell’industria e dell’indotto che ne deriva, migliaia di persone si ritroveranno senza più stipendio o con un reddito da fame. Eppure la speculazione edilizia continua senza sosta, con un lieve ribasso, ma con concessioni di cubature per cementificare ancora al limite della follia», recita una nota. Per questo, il movimento ha voluto «lanciare una vertenza per una moratoria degli sfratti in città e per la redistribuzione dei locali sfitti a chi ne ha e ne avrà bisogno. Una vertenza senza alcuna distinzione fra nazionalità, senza foraggiare la guerra fra poveri, senza alimentare nazionalismi quando a patire la crisi siamo tutti mentre a lucrarci sono quelli che l’hanno creata». Il movimento, infine, invita a «riprenderci ciò che ci serve per vivere degnamente».

DUMBLES / Friulan* e Forconi

 

Il tricolore sulla schiena

Abbiamo scaricato questa foto da un servizio del Messaggero Veneto. L’abbiamo messa in evidenza perchè questa immagine esprime un ossimoro, un assurdo, una contraddizione vivente e manifesta: la signora che a nome dei cittadini friulani  indossa la bandiera dello stato italiano e ne invoca la costituzione. Per ogni buon autonomista friulano/a questa foto dovrebbe rappresentare la perfetta sintesi del compimento dell’ultima colonizzazione culturale e politica del popolo friulano. Siamo a Udine, alle manifestazioni dei forconi, che sappiamo rutilanti di tricolori, unica identificazione ammessa sotto la quale esprimere la propria rabbia, disperazione, rivendicazioni, istanze.

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CIE DI GRADISCA: continuano le indagini per truffa contro la Connecting People

dal Piccolo del 18/12/13

Fatture gonfiate al Cie isontino Il gip ha disposto altre indagini

GRADISCA Nuova puntata del “caso” Cie-Prefettura. La Procura della Repubblica di Gorizia ha disposto ulteriori accertamenti sui conteggi delle presenze degli ospiti e sulle spese di gestione del centro immigrati di Gradisca. Una decisione presa dal pm Michele Martorelli in seguito alla memoria difensiva presentata dagli avvocati Alberto Tarlao ed Enrico Agostinis – difensori di gran parte dei vertici della Connecting people, la cooperativa che gestisce Cie e Caraa -, che sostengono come siano stati corretti i conteggi effettuati dall’ente gestore. Il supplemento di indagine è stato affidato dal pubblico ministero alla Finanza, che ha depositato nei giorni scorsi la sua relazione. E proprio per poter esaminare questi nuovi dati, che stando ad alcune indiscrezioni confuterebbero quelli della difesa, i legali hanno chiesto e ottenuto un nuovo rinvio dell’udienza preliminare. Il gup Rossella Miele ha così disposto un nuovo appuntamento per il prossimo 14 gennaio. I vertici della Connecting people sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa dello Stato e a inadempienze di pubbliche forniture. Secondo il capo di accusa, infatti, nelle fatture inviate alla Prefettura sarebbero stato indicato un numero maggiore di ospiti di quelli effettivamente presenti nelle due strutture gradiscane, per una truffa complessiva di quasi 1,5 milioni di euro. Nella vicenda sono implicati anche il viceprefetto vicario Gloria Sandra Allegretto e il ragioniere capo della Prefettura Telesio Colafati, imputati di falsità materiale e ideologica in atti pubblici per non aver verificato la congruità delle fatture presentate e di averle vistate autorizzandone il pagamento. Il periodo preso in esame nell’indagine va dal marzo 2008 al dicembre 2011, i tre anni in cui la Connecting people ha gestito il centro immigrati di via Udine. La Connecting people continua a gestire Cie e Cara dopo che la gara di appalto dello scorso anno non era stata aggiudicata per un vizio formale che aveva escluso la vincitrice, una cordata di imprese guidata dalla francese Gepsa. (fra. fem.)

Immigrazione, a Gradisca altri 60 arrivi al centro d’accoglienza

dal Messaggero Veneto del 18 dicembre 2013

Immigrazione, a Gradisca altri 60 arrivi al centro d’accoglienza

Sono arrivati nella notte da Lampedusa.  Situazione di sovraffollamento, si muove la Caritas

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GRADISCA. Sessanta immigrati di origine eritrea, richiedenti asilo politico, sono arrivati nella notte da Lampedusa al Cara di Gradisca d’Isonzo.

Criticità nel centro isontino, che accoglie ora quasi 200 immigrati, con una situazione di sovraffollamento che rende difficile l’attività degli operatori della cooperativa che gestisce la struttura.

Per garantire agli immigrati generi di prima necessità si è mossa anche la Caritas diocesana.

Amianto: ripartono i processi ma intanto si muore ancora

Parte il maxi processo bis sull’amianto

GORIZIA Il 20 gennaio inizierà il maxiprocesso-bis per le morti da amianto. E sarà il giudice monocratico Nicola Russo a gestire questo nuovo procedimento che, se non sarà complesso come il precedente, comunque occuperà il tribunale per tutto il nuovo anno. Se non oltre. Lo stesso giudice infatti ha accennato che, a causa della carenza di personale nel Palazzo di giustizia, ci sarà la necessità di riprogrammare l’intera attività di giudizio dei procedimenti legati alle inchieste sulle morti per amianto nei cantieri monfalconesi. A gennaio, riuniti i due fascicoli, il giudice procederà anche a una prima calendarizzazione dell’udienze, le prime delle quali saranno dedicate agli adempimenti procedurali. Ieri, intanto, oltre alla costituzione di parte civile di una trentina di familiari di lavoratori deceduti, si sono costituiti come parti offese la Fiom-Cgil, il Comune di Monfalcone e l’Associazione esposti amianto. È stata richiesta dalle parti civili pure la citazione della Fincantieri quale responsabile civile, ma su questo il giudice deciderà nell’udienza del 20 gennaio. Parte dei familiari delle vittime invece hanno trovato un accordo extragiudiziale con la Fincantieri e hanno rinunciato alla costituzione di parte civile. Imputati di omicidio colposo sono 19 tra dirigenti dell’ex Italcantieri (due nelle more dell’inchiesta sono deceduti), responsabili della sicurezza nei cantieri e titolari delle ditte esterne, che lavoravano all’interno dello stabilimento di Panzano. Si imputa loro di non aver adottato le necessarie misure di sicurezza per eliminare o ridurre l’esposizione all’amianto dei lavoratori e senza assicurarsi dell’effettivo impiego di mezzi per la protezione indoviduale quali adeguate mascherine. I lavoratori deceduti sono 71 di cui 41 per carcinoma polmonare correlato all’asbestosi. Secondo la Procura – l’inchiesta è stata condotta dai sostituti procuratori Luigi Leghissa e Valentina Bossi, ma in udienza ci sarà solo la Bossi dopo il trasferimento di Leghissa alla Procura di Caltanissetta – il tumore polmonare sarebbe stato provocato proprio dalla presenza della fibra killer. Sarà comunque il dibattimento processuale, nel quale avranno un ruolo importante le consulenze medico-legali, ad accertare le vere cause dei decessi. Corposa anche questa volta la documentazione prodotta dalla Procura: 12 faldoni contenenti 1593 fogli, consulenze mediche, verbali di perquisizioni e sequestri. Centinaia i testimoni che saranno citati complessivamente dalle diverse parti. Il periodo preso in esame dalla Procura, attivatasi anche su denunce-querele dei familiari di lavoratori morti, va dagli anni Settanta agli Ottanta fino a quando nel cantiere di Panzano veniva usato l’amianto per la costruzione delle navi. Anche se poi i decessi sono avvenuti molti anni dopo. È noto infatti che la malattia ha un’incubazione molto lunga, che può toccare anche i quarant’anni.

 

da Il Piccolo del 19 dicembre 2013 Pagina 26 – Gorizia-Monfalcone

Ucciso dall’amianto a 62 anni ex saldatore dell’Italcantieri

Claudio Olimpo viveva in Venezuela . Gli era stata diagnosticata l’asbestosi nel giugno 2012. Aveva lavorato anche alle acciaierie SiMo, AAA e alla Ferriera

Si è spento in Venezuela a Puerto Cabejo per colpa dell’amianto che ha respirato nella sua Monfalcone, lavorando come saldocarpentiere allo stabilimento Italcantieri, alla SiMo, alle Acciaierie Alto Adriatico, in porto e alla Ferriera di Servola. Ucciso da un mesotelioma della pleura. L’ennesima vittima della fibra killer è Claudio Olimpo, aveva 62 anni. Suo fratello Flavio, personaggio assai noto nel Monfalconese premiato per aver salvato una bambina caduta accidentalmente in acqua quando aveva soli 14 anni, lo piange con disperazione e rabbia: «Claudio non se n’è fatta mancare una di fabbriche maledette». Claudio Olimpo aveva scoperto di aver contratto l’asbestosi nel giugno dello scorso anno, in Venezuela, dove si era trasferito dalla seconda metà degli anni ’70 e aveva messo su famiglia con la moglie Norha e i figli Daniel e Claudia. Era tornato in Italia per farsi operare quando già la malattia era degenerata in mesotelioma. Si era fermato a Monfalcone per sei mesi, per sottoporsi a tutte le cure accessorie. Poi era tornato in Venezuela dove ormai si svolgeva la sua vita. L’ultimo rientro a Monfalcone nel giugno scorso per un ciclo di chemioterapia. La notizia della sua morte, avvenuta a Puerto Cabejo, è arrivata martedì sera al fratello, pure alle prese con gravi problemi respiratori. Flavio ora non può nemmeno, viste le sue condizioni precarie di salute, partecipare ai funerali del fratello. La famiglia Olimpo è stata decinata dall’amianto. Il padre di Flavio e Claudio, Carmelo, è a sua volta stato ucciso dalla fibra killer. «Senza però poter contare – ricorda Flavio – sulla. Quando si ammalò non riuscì a trovare le “testimonianze” sufficienti del suo contatto con l’amianto». Claudio Olimpo aveva iniziato a lavorare da saldocarpentiere proprio nello stabilimento navalmeccanico di Panzano negli anni in cui l’impiego dell’amianto era diffuso. Poi aveva cambiato ripetutamente luogo di lavoro, passando alla SiMo e alle Acciaierie del gruppo Maraldi, fabbriche di cui non restano che gli “scheletri” in zona industriale, passando quindi alle dipendenze del porto e della Ferriera di Servola. «Mio fratello ha pagato – afferma ancora Flavio – ambienti di lavori inquinati, malsani. Ha sofferto tanto». La morte di Claudio Olimpo arriva alla vigilia dell’apertura del secondo maxi-processo amianto che partirà il 20 gennaio al Tribunale di Gorizia.

TAV/ tutto e il contrario di tutto: bene così

 

Messaggero Veneto VENERDÌ, 20 DICEMBRE 2013

Pagina 12 – Economia

Tav, c’è l’ipotesi del tunnel sott’acqua

Progetto dell’architetto De Simone che boccia il quadruplicamento delle linee esistenti e l’idea di Cancian: sono pericolose

 

UDINE Boccia il quadruplicamento della linea esistente ma anche lo sdoppiamento a Mestre e l’idea di far passare l’alta capacità lungo la linea Pontebbana (come proposto dall’europarlamentare Antonio Cancian). Perché «sono ipotesi pericolose. Non è sostenibile far passare treni ad alta capacità nelle stazioni esistenti». Per Fernando De Simone, esperto in costruzioni sotterranee e referente per due delle maggiori società nella progettazione di tunnel (Tec tunnel e Norconsult, olandese la prima e svedese la seconda), la soluzione è un tunnel sottomarino – valore 5 miliardi di euro da realizzare con finanza di progetto – per trasportare da un lato le merci e dall’altro, attraverso un sistema cadenzato di metropolitana, le persone interessate a raggiungere le spiagge di Jesolo, Caorle e Lignano (collegate al tunnel con bypass). Fantascienza? Il progetto è già sul tavolo delle due regioni da un paio d’anni. «Lo abbiamo presentato anche alla presidente Serracchiani – spiega il tecnico – e riteniamo sia l’ unica ipotesi credibile». I vantaggi duplici: ambientali e di sicurezza. «Qualche giorno fa è accaduto un incidente a Marghera un convoglio che trasportava gas liquido ha preso fuoco. Ma viaggiava a 20 all’ora e il peggio è stato evitato. Cosa accadrebbe se succedesse su un treno che viaggia a 160 chilometri orari?. Una strage peggiore di Viareggio». Incendi in tunnel sotterraneo, invece, «comportano rischi solamente per chi si trova a bordo del treno merci, un paio di persone a viaggio» rivendica De Simone. L’architetto giudica inattuabili le ipotesi in galleria proposte dai progetti che puntano a lavorare sul potenziamento o rafforzamento dell’esistente «anche se potenziare la linea esistente è giusto, ma non per far passare le merci in alta capacità. In Italia la pendenza massima che può superare un treno per il trasporto merci è di 15 metri di profondità ogni 1000 metri di lunghezza. Per arrivare quindi al tunnel posizionato a circa 30 metri di profondità servirebbero due chilometri per scendere e altri due chilometri per risalire. I centri che si susseguono da Marcon a Portogruaro distano pochi chilometri l’uno dall’altro per cui, seguendo questa idea, costruiremmo le montagne russe». E poi «la velocità oraria dei treni sarebbe di gran lunga inferiore a quella attuale. I costi per la realizzazione dei tunnel vicino a circa 2000 abitazioni incalcolabili in termini di denaro e tempo». E come si trovano 5 miliardi? «L’opera si autofinanzia trasportando 30 mila mezzi pesanti al giorno – ipotizzando un costo di 50 euro a viaggio – garantirebbero di rientrare dell’investimento in dieci anni. Se poi andassimo a calcolare il flusso che sarà garantito dalla Orte-Mestre, i numeri aumenterebbero di gran lunga». Ma per far fronte ai camion si sta lavorando alla terza corsia. Opera che per De Simone «non serve. Negli Stati Uniti hanno smesso di sventrare il territorio perché si sono resi conto che aumentando le corsie non superi i colli di bottiglia. Solo noi – aggiunge – non l’abbiamo ancora capito». Martina Milia