Da Il Piccolo
11/09
Caso Rasman La famiglia: ora lo Stato paghi
«Ci piacerebbe sentire dallo Stato un atto di scuse e di partecipazione, anche con una transazione, ma finora non è arrivata nessuna risposta». Lo ha detto ieri in serata all’agenzia Ansa l’avvocato Claudio De Filippi, legale della famiglia di Riccardo Rasman, il 34enne in cura presso il Centro di salute mentale di Domio morto il 26 ottobre 2006 in seguito a un’irruzione della polizia nella sua casa, a Borgo San Sergio, fatto per cui sono stati condannati a sei mesi per omicidio colposo, con sentenza passata in giudicato dopo il pronunciamento della Corte di Cassazione, gli agenti della Squadra volante Mauro Miraz, Maurizio Mis, Giuseppe De Biasi. Ritenendo la vicenda «per comune ammissione più grave di quella di Federico Aldrovandi, ma tenuta nascosta», De Filippi ha ricordato che nell’ultima udienza in sede civile per la richiesta di danni della famiglia, l’Avvocatura dello Stato ha proposto una transazione di 500 mila euro, a fronte di una richiesta di nove milioni, «una cifra – ha commentato, come riporta ancora l’Ansa – che accetteremmo solo come acconto». «La Cassazione – ha proseguito De Filippi – ha esplicitamente scritto che si è trattato di una “violenta contenzione”, implicitamente dice che è stato un atto illegittimo, e lo Stato questo atto lo deve pagare caro». La prossima udienza della causa civile è stata fissata per il 23 ottobre prossimo.
03/09
«Il decesso di Rasman poteva essere evitato»
di Piero Rauber La morte di Riccardo Rasman, stroncato il 26 ottobre 2006 da un collasso cardiocircolatorio mentre era trattenuto a forza a terra dai poliziotti che avevano fatto irruzione nella sua casa di Borgo San Sergio, «era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l’attività di violenta contenzione a terra del Rasman, consentendogli di respirare». Così recitano le motivazioni, depositate ieri, della sentenza della Quarta sezione penale della Cassazione, che il 14 dicembre aveva confermato in via definitiva le condanne a sei mesi di reclusione, con pena sospesa, per omicidio colposo, a carico dei poliziotti Mauro Miraz, Maurizio Mis, Giuseppe De Biasi. Dopo la conferma dell’entità delle condanne, ora dunque viene messa – nel terzo e ultimo grado di giudizio – una pietra anche sopra i perché di quella morte. Era appunto il 26 ottobre del 2006 quando la polizia venne chiamata da alcuni vicini di casa di Rasman perchè il 34enne – in cura presso il Centro di salute mentale di Domio – stava lanciando petardi. I poliziotti della Squadra volante, con l’aiuto dei pompieri, avevano tirato giù la porta dopo aver tentato invano di farsela aprire. Ne era venuta fuori una mischia furiosa: Rasman era stato ammanettato e fatto distendere sul pavimento. In tre gli erano saliti a turno sulla schiena per tenerlo fermo. Ma lui, che aveva lottato senza risparmiare il fiato, aveva iniziato a rantolare, tanto da esser sentito da una vicina. Quando era arrivato il 118 era già troppo tardi. «Asfissia posizionale» si sarebbe poi letto nella perizia medico-legale. «Purtroppo rispetto al caso Aldrovandi l’entità della condanna per chi ha ucciso Rasman è ridicola», ha dichiarato ieri sera all’agenzia Ansa l’avvocato Fabio Anselmo, uno dei componenti dello staff di legali cui si è rivolta la famiglia della vittima, che si è già mossa anche per il risarcimento in sede civile, chiedendo otto milioni al ministero degli Interni. «Agli aguzzini di Aldrovandi è stata comminata una pena di tre anni e sei mesi – ha aggiunto Anselmo, che si è occupato anche di quel caso – ma la vicenda di Rasman credo fosse ancora più grave». «Nonostante gli anni passino, tutti continuano a stare zitti, a partire dalle forze di polizia, la verità non è mai venuta completamente alla luce, e siamo pure costretti a patire per la condanna a soli sei mesi per chi l’ha ammazzato», ha commentato sempre all’Ansa in tarda serata la sorella Giuliana. «Ho lavorato 37 anni per lo Stato – la disperazione della madre, Mariuccia – ed ora dovrei rassegnarmi al fatto che lo Stato abbia ucciso mio figlio, non lo farò mai»
22/08
Caso Rasman, lo Stato paga 500mila euro
Era il 27 ottobre 2006 e i quattro agenti assieme a due pompieri erano entrati di slancio nell’alloggio di via Grego 38 dopo aver tentato invano per una ventina di minuti di farsi aprire la porta. Dal terrazzo del monolocale di Riccardo Rasman, secondo l’allarmata indicazione dei vicini, erano stati lanciati pericolosamente in strada alcuni petardi. Da qui la richiesta di intervento, Rasman si era difeso, si era avventato contro gli agenti. Ne era scaturita una mischia, alla luce delle torce elettriche. Il giovane era stato ammanettato con i polsi dietro la schiena: i vigili del fuoco, subito dopo, gli avevano legato le caviglie con del filo di ferro. Poi era stato tenuto disteso sul pavimento e perché non potesse più reagire, i poliziotti avevano esercitato sul torace una pressione prolungata che si è rivelata fatale. Ma nessuno dei poliziotti, aveva pensato di sollevare l’uomo da terra, liberandolo del loro peso. Quando avevano chiamato il 118 era troppo tardi. L’ambulanza era tornata mestamente vuota al parcheggio e il medico legale d era entrato nell’appartamentino Ater teatro della tragedia. di Corrado Barbacini Un assegno di 500mila euro alla famiglia di Riccardo Rasman, il giovane di 34 anni morto nel 2006 a seguito dell’irruzione della polizia nella sua abitazione di Borgo San Sergio. Lo pagherà l’Avvocatura dello Stato per evitare il sequestro conservativo degli appartamenti di proprietà di Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giovanni De Biasi, i tre agenti condannati con sentenza irrevocabile a sei mesi per omicidio colposo. L’assegno dell’ammontare di 500mila euro è stato concordato l’altra mattina dai legali della famiglia Rasman, Giovanni Di Lullo e Claudio Defilippi con il legale rappresentante dell’Avvocatura, l’avvocato Meloni. Tecnicamente si tratta di una transazione che ha avuto anche lo scopo di evitare il sequestro dei soldi conservati nella cosiddetta cassa dei passaporti. Ma è chiaro che quanto accaduto davanti al giudice Enzo Carnimeo rappresenta la prima vittoria “economica” della famiglia Rasman. Una vittoria anche morale se si pensa che nello scorso mese di giugno la stessa Avvocatura dello Stato ritenendo la richiesta di sequestro «inutilmente vessatoria» aveva descritto nella comparsa di risposta con queste parole Riccardo Rasman: «un giovane “parcheggiato” a spese della collettività in un alloggio di edilizia popolare da chi ormai evidentemente non poteva o voleva farsene carico. Un giovane che costituiva motivo di paura e di preoccupazione per i vicini, evidentemente non informati dalla famiglia di origine dei modi per contattarli». Oltre la transazione di 500mila euro per evitare il sequestro degli appartamenti dei poliziotti e dei soldi ottenuti dalle tasse sui passaporti, rimane la citazione in sede civile nei confronti del ministero per la somma di 8 milioni di euro. È questa la cifra da capogiro che gli avvocati Di Lullo e Defilippi chiederanno come risarcimento per le sofferenze patite dal giovane negli ultimi strazianti minuti della sua vita e per i terribili riflessi che questa morte ha provocato sugli anziani genitori e sulla sorella. Il punto nodale della causa civile è rappresentato dal danno sofferto da Riccardo Rasman nel breve periodo in cui era riverso a terra con le mani e i piedi legati e con un paio di agenti che col loro peso la tenevano bloccato. In quel breve periodo la vittima respirava a fatica, rantolava. Lo aveva sentito una vicina di casa. Nella citazione è evidenziato che Rasman si rendeva conto di stare per morire soffocato. Sarebbe stato sufficiente che i poliziotti lo sollevassero e la sua vita sarebbe stata risparmiata. A questo danno si affianca il danno biologico, esistenziale e morale che ancora oggi stanno patendo i genitori e la sorella. Ecco perché è così elevata l’entità del risarcimento richiesto al ministero degli Interni e ai tre agenti condannati per omicidio colposo. Va aggiunto che nei tre gradi di giudizio tutti i magistrati che si sono occupati di questa terribile vicenda hanno riconosciuto il pieno diritto e la piena legittimità dei poliziotti a fare irruzione nel monolocale di via Grego a Borgo San Sergio dal cui terrazzo Riccardo Rasman aveva gettato un petardo. Ma l’errore tragico è stato quello di aver trattenuto troppo a lungo bloccato sul pavimento la vittima, esercitando sul torace una pressione che si è rivelata fatale. In sintesi Rasman non sarebbe morto se la pressione esercitata sul suo torace non si fosse protratta nel tempo. «Il giovane aveva compiuto uno sforzo enorme, lottando coi poliziotti come un leone: dimostrava con l’affanno del respiro di essere in fortissimo debito di ossigeno: una qualunque persona – si legge nella sentenza di condanna – e a maggiore ragione dei poliziotti, dovevano prevedere che tenere premuto il corpo a terra per diversi minuti, avrebbe significato compromettere la respirazione e la vita». In altre inchieste non dissimili, ad esempio quella sulla morte di Federico Aldrovandi, il ragazzo deceduto a Ferrara dopo un prolungato controllo di polizia, il ministero degli Interni ha risarcito i genitori della vittima. Lo ha fatto versando loro due milioni di euro ancora prima che si aprisse il dibattimento. La prossima data è quella del 23 ottobre. Per quel giorno è stata fissata l’udienza per il merito.
Rassegna stampa da Il Piccolo
10/05/12
Ucraina suicida, funzionario indagato
di Corrado Barbacini Il pm Massimo De Bortoli si è presentato ieri mattina in Questura con una decina di finanzieri e due poliziotti della Procura. Hanno perquisito le stanze del settore immigrazione al terzo piano ma anche l’ufficio di Carlo Baffi, il funzionario responsabile per le pratiche relative agli stranieri che ha gestito la tragica vicenda di Alina Bonar Diachuk. Si tratta dell’ucraina di 32 anni morta suicida il mattino del 16 aprile in una stanza del commissariato di Opicina, dove era stata rinchiusa illegalmente in attesa dell’espulsione. Baffi è ora indagato per sequestro di persona e omicidio colposo: è rimasto negli uffici della finanza in Procura fino a tarda sera. «La perquisizione è un atto dovuto a seguito dell’iscrizione nel registro degli indagati del dottor Baffi, che è assolutamente sereno avendo rispettato nell’esercizio delle proprie funzioni quanto di dovere», ha dichiarato ieri sera il difensore, l’avvocato Paolo Pacileo. Le ipotesi di reato per Baffi riguardano a oggi il caso di Alina, ma nel corso del blitz in Questura sono stati sequestrati 49 fascicoli in originale relativi ad altrettanti cittadini extracomunitari anch’essi, in attesa dell’espulsione, detenuti secondo la Procura illegalmente al commissariato di Opicina. Le stesse stanze dove è morta la giovane donna. Gli investigatori infatti al loro ingresso in Questura avevano già una lista con i nomi dei 49 stranieri evidenziati dall’agosto del 2011 fino allo scorso aprile, nomi acquisiti grazie alla documentazione sequestrata nei giorni scorsi sia negli uffici del Giudice di pace che al commissariato di Opicina. «Siamo a disposizione per fornire ogni elemento utile alle indagini relative al suicidio avvenuto all’interno di una struttura della polizia», ha dichiarato il questore Giuseppe Padulano. «Se abbiamo commesso degli errori», ha aggiunto «siamo di fronte a persone che hanno fatto il proprio dovere. Ho offerto alla Procura la massima collaborazione». Padulano ha sottolineato «la difficile situazione organizzativa» delle istituzioni «che si è cercato di fronteggiare». Nei weekend infatti non è in servizio un giudice che possa convalidare i decreti di espulsione. In quelle ore, secondo la Questura, gli stranieri non possono essere liberati. Ma per la Procura non possono essere nemmeno trattenuti. Un limbo, insomma, che si traduce però per gli stranieri in attesa di espulsione in una vera e propria detenzione. Alina Bonar Diachiuk era stata scarcerata in forza di un provvedimento del giudice Laura Barresi il 14 aprile dopo una sentenza di patteggiamento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per la legge, risultava libera. Eppure era stata “prelevata” come fosse un’arrestata da una pattuglia della squadra volante che, su disposizione dell’ufficio immigrazione diretto da Carlo Baffi, l’aveva portata dal Coroneo direttamente al commissariato di Opicina. Lì era stata “reclusa” nella stanza di controllo – che in realtà è un’altra prigione – in attesa del provvedimento del questore e dell’udienza davanti al giudice di pace che peraltro non era stata né fissata né richiesta. Lì, su una panca, davanti all’obiettivo di una telecamera a circuito chiuso, si è impiccata legando una cordicella al termosifone. La sua agonia – hanno accertato gli investigatori – è durata quaranta minuti. In tutto questo tempo l’agente che era in servizio di piantone al commissariato di Opicina, non è riuscito a dare “un’occhiata” al monitor posizionato a pochi centimetri da lui. Non si è accorto di quello che stava succedendo.
«Quell’automatismo cieco che non riconosce le fragilità»
«Proporzionalità e progressività delle misure, ricorso ad azioni coercitive nel minor numero possibile dei casi e, soprattutto, valutazione situazione per situazione, con particolare attenzione alle persone vulnerabili». Gianfranco Schiavone, componente del direttivo nazionale dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, snocciola uno a uno i principi fissati dalla direttiva europea 118/2005 in materia di rimpatri. Principi che a suo giudizio, nel caso di Alina Bonar Diachuk, forse non sono stati correttamente rispettati. «C’è un dato fondamentale in questa vicenda – osserva Schiavone -. La giovane ucraina versava in un’oggettiva condizione di vulnerabilità. Una condizione peraltro nota alla Questura visto che la ragazza aveva già avuto comportamenti autolesionisti durante la sua detenzione. Di conseguenza le autorità competenti, questore ma anche prefetto, avrebbero dovuto verificare attentamente la situazione di Alina, sottoponendola a visite mediche anche psichiatriche, per poi capire se le modalità di trattamento previste avrebbero potuto aggravare il suo stato di fragilità e optare magari per una sospensione o una dilazionare del provvedimento di allontanamento. Attenzioni, sia chiaro, che non sono lasciate alla discrezionalità e al buon cuore del singolo, ma sono espressamente previste dalle normative ». Nel caso della 32enne ucraina, invece, il sospetto è che l’unico criterio seguito sia stato quello dell’abbreviamento dei tempi. «Ciò che stupisce è l’automatismo dei processi di espulsione – continua Schiavone, da sempre in prima linea nell’attività dell’Ics, il Consorzio italiano di solidarietà -. Un automatismo cieco, che in alcuni casi può avere effetti tragici. Eppure la logica della direttiva europea è chiara: al rimpatrio forzato andrebbe sempre preferito il rimpatrio volontario, concedendo un termine per la partenza. Può capitare poi che, per evitare il rischio che la persona scappi e si allontani, si agisca diversamente, ma non può essere la regola. Non si può procedere automaticamente alle espulsioni forzate per scongiurare potenziali pericoli di fuga. Questa è una logica di polizia, comprensibile in alcuni casi ma di certo non in tutti. Non sicuramente quando di fronte ci sono persone in evidente stato di vulnerabilità». Di qui il monito finale. «Le pubbliche autorità triestine – conclude Schiavone – dovrebbero essere chiamate a riflettere, senza scorciatoie o semplificazioni, se i principi della direttiva europea sono stati rispettati e se qualcosa vada cambiato rispetto a quanto avviene nel processo di assunzione e attuazione dei provvedimenti di espulsione». (m.r.)
SABATO, 05 MAGGIO 2012
Suicida al Commissariato Almeno 100 casi “abusivi”
L’ucraina impiccata non avrebbe dovuto essere trattenuta così a lungo.
Ascoltati quattro poliziotti, acquisiti tutti i fascicoli relativi alle
espulsioni di stranieri
ORDINE DEGLI AVVOCATI
«Udienze di convalida, serve un giudice»
«Ferma contrarietà che le udienze di convalida dei provvedimenti di
espulsione siano svolte al di fuori dei luoghi deputati per legge, con
la verbalizzazione affidata ad appartenenti alle Forze di polizia». È
questo il punto nodale del documento diffuso ieri dall’Ordine degli
avvocati di Trieste e inviato al prefetto Alessandro Giacchetti, al
questore Giuseppe Padulano, al presidente del Tribunale Raffaele Morvay
e al coordinatore dei giudici di pace Francesco Pandolfelli. L’Ordine
degli avvocati, attraverso il suo presidente Roberto Gambel Benussi
(foto), spiega le ragioni della propria “ferma contrarietà” allo
svolgimento eventuale delle udienze di convalida delle espulsione
all’interno della Questura e con la verbalizzazione affidata a un
appartenente alla polizia. «La ratio delle legge è proprio quella di
affidare al controllo di un giudice, e quindi di un soggetto terzo, la
legittimità di un provvedimento a carattere amministrativo, nel
contraddittorio tra la difesa e l’Autorità che ha deciso l’espulsione.
Questa autorità sta in giudizio con propri funzionari appositamente
delegati. Appare pertanto evidente che, se l’udienza si svolgesse in
locali appartenenti a forze di polizia che devono poi eseguire il
provvedimento di espulsione e la verbalizzazione fosse affidata a
funzionari della stessa polizia, le parti non sarebbero più sullo stesso
piano, ma anche la terzietà del giudice verrebbe irrimediabilmente
compromessa nel suo apparire». L’Ordine degli avvocati esprime il
proprio rammarico per non essere stato convocato alla riunione
direttamente collegata al suicidio della giovane ucraina rinchiusa nel
Commissariato di Opicina.
di Claudio Ernè Quattro poliziotti che lavorano all’Ufficio immigrazione
della Questura sono stati interrogati ieri mattina dal pm Massimo De
Bortoli. Non erano accompagnati da avvocati in quanto sono stati
“sentiti” come testimoni. Uno alla volta sono entrati nello studio del
magistrato che – dopo il suicidio di Alina Bonar, la giovane ucraina
impiccatasi in una stanza del Commissariato di Opicina due settimane fa
– vuole fare chiarezza sulle modalità con cui vengono espulsi i
cittadini stranieri. Alina Bonar, secondo quanto è finora emerso, non
avrebbe dovuto essere trattenuta tanto a lungo in un posto di polizia.
Non avrebbe dovuto essere privata della libertà dopo che il giudice
Laura Barresi l’aveva fatta scarcerare dal Coroneo, dove la donna pochi
giorni prima aveva tentato di mettere fine per disperazione ai propri
giorni. Anche per questo suo conclamato stato di depressione psichica
Alina Bonar avrebbe dovuto essere o liberata nei tempi previsti dalla
legge o per lo meno sorvegliata attentamente. Invece sotto l’occhio
gelido di una telecamera si è impiccata e la registrazione video ha
detto che per almeno mezz’ora nessuno si è accorto del suo gesto
estremo. Non se n’è accorto nemmeno chi doveva periodicamente osservare
le immagini della stanza in cui era rinchiusa la donna, trasmesse su un
piccolo schermo. Nell’ambito di questa inchiesta in cui ieri sono stati
interrogati i quattro agenti dell’Ufficio immigrazione, sono all’esame
degli inquirenti più di cento fascicoli che raccontano la storia e le
vicissitudini burocratico-giudiziarie di altrettante persone che sono
state bloccate, trattenute, espulse e riaccompagnate alla frontiera nel
territorio affidato alla Questura di Trieste. Un pool di investigatori,
di cui fanno parte agenti di polizia e uomini della Guardia di finanza
coordinati dal pm Massimo De Bortoli, ha già acquisito nell’archivio del
Commissariato di Opicina tutti i documenti collegati a queste cento e
più espulsioni. Altrettanti documenti sono stati acquisti dallo stesso
pool di investigatori negli uffici di via del Coroneo del Giudice di
pace che per legge deve convalidare alla presenza di un avvocato
difensore, il decreto di espulsione emesso dalla Prefettura. Le
acquisizioni di questo centinaio di fascicoli consentiranno di
verificare se le procedure adottate fin dallo scorso agosto dalla
Questura, e in dettaglio dall’Ufficio immigrazione, hanno sempre
rispettato i tempi e le procedure scansite dalla legge. Per Alina Bonar
questo sembra non essere accaduto e il coordinatore dei giudici di pace,
Francesco Pandolfelli, sentito come testimone dal pm Massimo De Bortoli,
ha precisato che i suoi uffici erano pronti a organizzare l’udienza e a
convocare il difensore di Alina Bonar, ma nessun documento è mai
arrivato fino a lunedì mattina dalla Questura. L’inchiesta al momento è
protocollata come “atti relativi”. In sintesi non ci dovrebbero essere
ancora indagati. Certo è che se le ipotesi investigative dovessero
trovare conferma, la scelta ricadrebbe sull’arresto arbitrario o sul
sequestro di persona.
MARTEDÌ, 01 MAGGIO 2012
Agenti-cancellieri per gli immigrati: gli avvocati bocciano la proposta
Il presidente dell’Ordine Gambel Benussi: «Non siamo mai stati
interpellati. La soluzione non mi pare praticabile, chi è stato
scarcerato è libero a tutti gli effetti. Non è un detenuto»
Inchiesta aperta sulla morte dell’ucraina Alina Bonar
Dalla morte di Alina Bonar, alla riorganizzazione delle procedure di
espulsione. C’è un dranmmmatico filo rosso che collega queste vicende. I
motivi che hanno indotto al suicidio di Alina Bonar, la giovane ucraina
che due settimane fa si è impiccata all’interno del commissariato di
Opicina dove era stata rinchiusa dopo essere stata liberata dal giudice
Laura Barresi, è ora al vaglio del pm Massimo De Bortoli. Il pm ha
interrogato come testimone il giudice di pace Francesco Pandolfelli.
Negli atti inviati alla Procura dall’Ufficio immigrazione della Questura
risulta che «lo svolgimento delle operazioni veniva rinviato alla
mattina di lunedì 16 secondo le intese in vigore tra la Questura e il
locale Ufficio del Giudice di Pace». «Avremmo potuto esaminare il caso
già sabato mattina. Bastava avvisarci», ha dichiarato il coordinatore
del giudici di pace Francesco Pandolfelli
di Claudio Ernè Gli avvocati non ci stanno. Anzi sono stupiti ed
esprimono attraverso i loro organismi istituzionali tutte le perplessità
della loro categoria per il progetto messo a punto dal questore Giuseppe
Padulano che vorrebbe assegnare a un ispettore di polizia il ruolo di
cancelleriere nelle udienze dei fine settimana in cui viene decisa
l’espulsione di un cittadino straniero. Il presidente dell’Ordine
Roberto Gambel Benussi ieri ha sottolineato come nella riunione
convocata venerdì scorso in Prefettura, non fosse stato invitato nemmeno
un rappresentante dell’avvocatura, da sempre impegnata a difesa dei
diritti civili delle persone. «Nessuno ci ha avvisato anche se la legge
ci assegna un preciso ruolo nelle pratiche necessarie alle procedure di
espulsione degli stranieri. Un legale deve essere necessariamebnte
presente all’udienza convocata di fronte al giudice di pace o in
Tribunale. Quanto è stato proposto dal questore non mi sembra sia una
soluzione praticabile. Chi è stato scarcerato su ordine di un magistrato
e deve essere espulso, è comunque una persona libera e non un detenuto.
Avremmo voluto portare il nostro contributo tecnico e umano alla
riunione di venerdì, ma nessuno ci ha avvisato». Prima di dichiarare il
proprio disappunto per l’esclusione dalla riunione in Prefettura,
l’avvocato Roberto Gambel Benussi ha compiuto una ricognizione
all’interno della segreteria dell’Ordine. Ha cercato eventuali fax o
messaggi sfuggiti in un primo momento o giunti in ritardo. La
ricognizione non ha avuto esito. Gli avvocati intesi come Ordine non
erano stati proprio convocati. Poi il presidente si è incontrato con il
giudice Raffaele Morway, presidente del Tribunale. Al centro
dell’incontro proprio la bozza di soluzione messa a punto in prefettura
e la praticabilità sul piano della legge della soluzioni prospettate. Va
detto che l’udienza in cui il giudice di pace dovrebbe affrontare il
problema dell’espulsione, secondo quanto emerso venerdì, si svolgerebbe
proprio negli uffici di via del Teatro Romano e non nella sede
istituzionale del Giudice di pace, ospitata in uno stabile di via del
Coroneo. Inoltre, per rendere più spedito l’iter dell’espulsione, la
verbalizzazione delle udienze nei fine settimana, sarebbe affidata a un
ispettore di polizia e non più a un cancelliere. Questa proposta di
organizzazione è entrata anche nel mirino della Camera penale di
Trieste. Il presidente, l’avvocato Andrea Frassini, la ritiene poco
praticabile anche dal punti di vista legale dal momento che le udienze
devono essere celebrate nelle sedi istituzionali; in sintesi in un’aula
del Giudice di pace, non in un ufficio della Questura. «Non vedo perché
un agente di polizia, dipendente dall’esecutivo a cui deve comunque
rispondere, debba redigere il verbale quando per legge questo compito
spetta ai cancellieri. Se così fosse rischia di venir meno il momento
giurisdizionale e come avvocati non possiamo accettare soluzioni di
questo genere su problemi così complessi c sul piano dei diritti
civili». In effetti nemmeno nei momenti storici più bui del nostro Paese
le udienze si sono svolte negli uffici di polizia. Va aggiunto che le
Camere penali da tempo stanno pesantemente criticando la scelta del
Ministro della Giustizia Paola Severino che con un apposito Decreto ha
deciso che nelle celle di sicurezza dei Commissariati di polizia, della
caserme e Stazioni dei carabinieri nonché delle Questure, possono essere
trattenute persone fermate o arrestate. «Mancano i servizi igienici; a
livello sanitario la situazione è precaria. Non è chiaro come venga
fornito il cibo. I diritti costituzionali vanno rispettati senza cercare
scorciatoie o vie di comodo», ha concluso l’avvocato Andrea Frassini.