A Trieste si ricomincia a parlare di CIE e l’occasione è stata una performance del Living Theatre svoltasi ieri in piazza della Borsa a conclusione di un laboratorio durato vari giorni. I teatranti hanno svolto una coinvolgente rappresentazione davanti a numerosi sostenitori e curiosi. La performance era volta a denunciare l’esistenza di questi non-luoghi di tortura anche attraverso spezzoni audio presi dai media locali sul CIE di Gradisca. Durante l’iniziativa è stato diffuso ai passanti un volantino informativo sui CIE del Gruppo Anarchico Germinal.
CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED
ESPULSIONE
Cos’è I CIE sono luoghi di detenzione amministrativa, paradosso logico e giuridico; strutture in cui gli “ospiti” sono sottoposti di fatto ad un regime carcerario, ma senza permessi di uscita o di visita, e in cui subiscono quotidianamente sopraffazioni e violenze. Sono prigioni per persone che non hanno – o, sempre più spesso, non hanno più – i documenti in regola. Sono a decine sparsi per l’Italia, uno di questi si trova a Gradisca d’Isonzo, a pochi chilometri da qui.
Come funziona A volte, chi viene fermato senza permesso di soggiorno in regola, viene portato in uno di questi centri, ufficialmente in attesa di essere identificato ed espulso e può essere trattenuto fino a 18 mesi. Possono essere persone appena arrivate, o fermatie per strada, ma anche, ad esempio, uscite dal carcere (che quindi hanno già subito un processo, durante il quale la loro identità è stata accertata) o stranieri che per anni hanno soggiornato regolarmente e che poi perdendo il lavoro hanno anche perso il permesso di soggiorno…
La collettività paga a coloro che gestiscono questi centri (spesso cooperative, come il consorzio Connecting People a Gradisca) un quota “ad ospite” che si aggira mediamente attorno ai 60-80 euro al giorno, senza contare i costi strutturali e la manutenzione straordinaria. Più “ospiti”, più soldi. Un business notevole, i cui conti sono ben poco trasparenti.
A cosa serve I CIE in Italia non svolgono affatto la funzione per cui sono stati ufficialmente istituiti: identificare ed espellere i migranti senza documenti. In realtà, solo una piccola parte di quanti vengono fermati finisce in una di queste strutture, e ancor meno sono quelli poi effettivamente espulsi. Di fatto, oltre a rappresentare un travaso di soldi (pubblici) nelle tasche di privati (amici?), queste strutture svolgono a livello sociale una funzione prettamente ideologica.
Una funzione di propaganda nei confronti dei cittadini italiani, di supposto “pugno di ferro” in materia di immigrazione.
Una funzione di disciplinamento nei confronti dei cittadini stranieri, perennemente sottoposti al ricatto del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro (se non hai un permesso non puoi avere un lavoro, ma se non hai un lavoro non puoi avere un permesso). In quest’ottica, i CIE rappresentano una sorta di minaccia costante, un deterrente per qualsiasi forma di rivendicazione sociale o lavorativa.
Come si cura
L’unica cura per questa “malattia democratica” è la chiusura immediata di tutti i centri.
“Il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione diventa la regola (..). Se l’essenza del campo consiste nella materializzazione dello stato di eccezione e della conseguente creazione di uno spazio in cui la nuda vita e la norma entrano in una soglia di indistinzione, dovremo ammettere che ci troviamo virtualmente in presenza di un campo ogni volta che viene creata una tale struttura, indipendentemente dall’entità dei crimini che vi sono commessi e qualunque ne siano le denominazioni e la specifica topografia.” Giorgio Agamben