Intervista sul CIE di Gradisca

L’intervista-articolo che segue è tratta dal numero 118 di Germinal.

 

 

Veri e propri lager, i CIE. Non ci si deve stancare di ripeterlo e di ricordarlo a chiunque, soprattutto a quelli che volutamente ignorano una situazione inaccettabile e che, con  loro indifferenza, si rendono complici di un crimine di Stato perpetrato da anni contro i più deboli: immigrati, donne e uomini senza permesso di soggiorno. Persone che, lasciando il proprio paese d’origine, rischiano persino la vita per migliorare le proprie condizioni, per sfuggire alle guerre e alla repressione, per trovare un lavoro dignitoso. Persone cui è impedito di decidere dove e come stare/spostarsi  sul pianeta terra.

Ne parliamo con un giovane avvocato che per la prima volta entra in un Centro di Identificazione ed espulsione, quello di Gradisca d’Isonzo.

Entrare nei CIE è molto difficile: tu, in qualità, di avvocato hai potuto farlo. Vuoi raccontarci la tua esperienza?

Quando entri,  trovi gli alpini con la jeep e gli zaini come se si fosse in Afghanistan. Ho incontrato i miei assistiti in una stanzetta adibita ai colloqui che, a quanto si dice, vengono registrati. Nessuno entra nei luoghi dove vivono gli immigrati. Ogni tanto viene dato uno “spettacolo” per giornalisti e parlamentari in visita.

Come sei stato contattato e perché?

Il centralino del CIE prende contatto con i legali all’esterno su richiesta degli internati che, in teoria dovrebbero poter comunicare con avvocati e famigliari. Quanto avvenga effettivamente, a quante telefonate abbiano diritto, questo non lo so. Penso che tutto sia lasciato all’arbitrio o alla “disponibilità” degli assistenti sociali o di chi si occupa della cosa. Ai detenuti di Gradisca è vietato tenere il cellulare perciò sono costretti ad affidarsi all’amministrazione.

Dovevo parlare con alcuni reclusi che avevano impugnato il decreto di espulsione.

All’interno del centro si svolgono le udienze che riguardano la convalida di trattenimento o l’espulsione. È il giudice di pace di Gradisca d’Isonzo a tenerle, il quale si occupa quasi solo di questi casi e decide sui cosiddetti ospiti che sono all’interno. Quindi, periodicamente, la posizione di queste persone passa sotto il vaglio di un giudice.  Il giudice di pace è un giudice non togato, una figura fortemente potenziata con le nuove normative che ha un ruolo sempre più ampio nei procedimenti amministrativi. Per quanto riguarda l’immigrazione è la prima autorità cui si trova di fronte il ricorrente.

Quando si può impugnare il decreto di espulsione?

I ricorsi si basano sull’invalidità del decreto: se non  è motivato o non presenta la forma prevista per legge oppure sussistono altre motivazioni come ad esempio la presenza di una famiglia in Italia, il realizzarsi di una condizione lavorativa, di un rapporto di lavoro e dunque la possibilità dell’ottenimento di un permesso di soggiorno. Uno degli immigrati per cui si doveva scrivere un ricorso è risultato scomparso, probabilmente è stato espulso prima della decorrenza dei termini.

Esiste un arbitrio a livello di espulsioni: in regione, le norme antimmigrazione vengono applicate in modo più restrittivo che in altre parti d’Italia.

Chi perde il lavoro perde anche il diritto al permesso di soggiorno. Hai incontrato persone in queste condizioni nel CIE di Gradisca?

Uno dei miei assistiti si trova in Italia qui dall’inizio degli anni ’90, faceva una vita regolare. Arrivato irregolarmente, aveva ottenuto il permesso di soggiorno perché faceva il panettiere e l’ha fatto per anni, ora con la chiusura di tanti esercizi, si è trovato senza lavoro. E’ stato internato e colpito dal decreto di espulsione verso il paese d’origine dove ormai non ha più legami: a livello culturale è diventato un italiano. Sono situazioni gravi che si inaspriscono e derivano dalla crisi economica che colpisce i lavoratori e specialmente i lavoratori immigrati. Con le norme della legge Maroni, l’immigrato ha sei mesi di tempo per presentare un’istanza sulla base di un altro rapporto lavorativo, altrimenti scatta la perdita del permesso di soggiorno che apre le porte all’espulsione. Comunque i tempi di trattenimento nei CIE sono enormi: una persona può rimanere rinchiusa un anno e sei mesi, un tempo lunghissimo. Nella presente fase economica sono carceri per lavoratori immigrati eccedenti che non si riescono attualmente a sfruttare.

Lavoratori che oggi non possono essere assunti regolarmente ma che vanno benissimo per il lavoro nero ovunque .

Non tutti gli immigrati irregolari finiscono là dentro perché le norme hanno la funzione di mantenere i lavoratori in una condizione di servilismo e ricatto assoluti, una parte deve essere colpita per la deterrenza, il resto rimane a lavorare “invisibilmente”. Abbiamo a che fare con loro quotidianamente senza rendercene conto: sono le badanti o i lavoratori nel settore agricolo e in diversi altri settori. Per quel che ne so all’interno del CIE ci sono anche dei cinesi e questo è il segno che anche comunità d’immigrazione relativamente più ricche stanno risentendo della crisi e  alcuni suoi membri finiscono in queste strutture perché negozi ed attività chiudono.

Le condizioni di vita nel CIE di Gradisca?

Questa è gente che sta molto male, loro stessi te lo riferiscono. Più di qualcuno paragona il CIE di Gradisca a Guantanamo, è un lager, soprattutto quello di Gradisca deve essere uno dei più pesanti in Italia. Vuoi per il ciclo di rivolte che ci sono state, vuoi perché è periferico, non è un CIE dove si procede all’espulsione come è quello di Roma o dove vi sono strutture di massa come quello di Lampedusa. Penso che sia una struttura periferica, che ha assunto più volte funzione punitiva, ovvero atta alla reclusione di persone provenienti da altri CIE in cui ci sono state rivolte. Li portano qua, in una zona isolata, fuori da un contesto di immigrazione forte come avviene per esempio a Torino dove il CIE è situato dentro una cintura urbana circondata da quartieri di immigrati. Qui la struttura si trova in mezzo ai campi, al confine nord-orientale dove da un lato viene reclusa la gente che passa le frontiere in queste zone e dall’altro viene portata gente da tutta Italia in attesa dell’identificazione e dell’espulsione. All’interno evidentemente le forze dell’ordine hanno un arbitrio ancora più forte che in altri posti e quindi la situazione è peggiore che da altre parti. Le poche decine di persone recluse vengono tenute sotto un controllo totale, mentre questo è più difficile quando i numeri sono più alti, anche le proibizioni all’interno sono più severe. Ciò non toglie che vi siano ripetuti tentativi di fuga e rivolte periodiche che  hanno comportato seri danneggiamenti della struttura. Per un periodo è stato completamente inagibile e le persone sono state smistate nei CIE di tutta Italia.

Per quanto riguarda le condizioni all’interno, il poco che si sa è agghiacciante: l’inattività è totale, vige il divieto di tenere libri, sono vietati giornali; si tratta di impedire a queste persone di accedere a qualunque messaggio dall’esterno, di annullare la loro socialità, di reprimere la loro identità religiosa. I reclusi con cui sono venuto in contatto dicevano”qui è vietato leggere.” E, come ti dicevo, non possono avere i telefoni cellulari. Anche i legali all’interno del CIE non possono utilizzare i cellulari, il telefono. Vige probabilmente l’arbitrio più assoluto.

Che cosa puoi dirci dei trattamenti psichiatrici cui sono sottoposti i reclusi?

E’ noto che nei CIE vengono somministrati psicofarmaci. La psichiatria ha un ruolo importante nell’esercizio del controllo sugli internati.

Tutte le persone con cui ho parlato erano segnate dall’assunzione di farmaci; erano tremanti, usavano un linguaggio ripetitivo, alcuni si muovevano male, lo sguardo perso. Credo che all’interno operino degli psichiatri che fanno capo all’Azienda sanitaria di Gorizia. Ci sono continui casi di autolesionismo – persone che inghiottono vetri, lamette, monete – per protesta contro le condizioni in cui sono costretti, allo scopo di attirare l’attenzione dei legali, per farsi ricoverare in ospedale – da dove possono tentare la fuga -, per disperazione o semplicemente per affermare di esistere.

Da quanto riporta la stampa c’è un episodio di rivolta alla settimana che i reclusi attuano con il fine  di ribellarsi alle condizioni in cui sono costretti e ripetuti sono i tentativi di fuga che talvolta hanno successo.

Non mi è stato riferito di episodi di violenza diretta, quello che si percepiva chiaramente era il clima di paura e sembra che a Gradisca le condizioni siano più estreme che in altri CIE.

 

 

 

In ricordo di Alina Diachuk, morta suicidata nel commissariato di Villa Opicina a Trieste il 16 aprile 2012 dove era detenuta illegalmente in attesa del decreto di espulsione.