Come imparare a riconoscere i fascisti e lottare senza inganni
L’accelerazione di alcuni fenomeni fa una certa impressione. Fino a 10 anni fa, nonostante la fatica di dover puntualizzare e mostrare i pericoli d’infiltrazione e mistificazione della destra, era difficile ritrovare testi di questo o quell’altro fascista usati come fonte di analisi o strumenti di lotta.
Certamente a fare da filtro c’erano rapporti basati ancora su una frequentazione reale o quantomeno, se virtuali, mediati da una conoscenza indiretta di quel “mondo” concreto fatto di produzioni di testi, analisi e contenuti.
La frenesia con cui “la rete” si è allargata e il suo carattere fortunatamente libertario, perché rizomatico, contiene in nuce il pericolo dell’inconsistenza delle fonti, della mancanza di memoria condivisa e in ultimo, e decisivo, lo scollamento da quel “mondo” reale e dalla sua produzione culturale.
Dai network sociali alla rete di blog personali, fino alla creazione di veri e propri “portali” di comunicazione e “informazione”, assistiamo da qualche anno alla clonazione, amplificazione e travisamento di pezzi di storia accostati, o meglio accatastati, a fianco di improbabili fatti “accaduti” o in via di accadimento. Come replicanti che, generazione dopo generazione, assumono tratti sempre più “umani”, anche le notizie, spesso assurte a “teorie”, assomigliano sempre più a una qualche illuminante verità: non tale perché riscontrabile e verificabile ma in quanto accettabile, auspicabile o semplicemente comprensibile.
Ma se queste sono le conseguenze, gli effetti di un fenomeno, è bene andare a soffermarci sulle cause e sui motivi che stanno alla base di questa “fortuna” per le nuove maschere destrorse, senza cadere in facili complotti, ormai così chiari agli occhi di tutti che non si capisce come possano poi essere tali.
DALLA CONTROINFORMAZIONE AL COMPLOTTISMO
Chomsky, per citare un esponente del radicalismo americano che tra i primi ha analizzato i mutamenti della propaganda con l’insorgere della società massmediatica[1] per eccellenza, quella statunitense, ha spiegato bene come dalla censura si sia passati non tanto alla libertà d’espressione, bensì alla sovrapproduzione d’informazione.
Se rispetto ad un fatto, specifico e complesso, non abbiamo più a disposizione 2 o 3 interpretazioni ma ne abbiamo 10, 20 o 100, è evidente che chiunque non abbia dimestichezza con quanto trattato si ritrovi a dover discernere fra verità così differenti da trovarsi poi in forte difficoltà.
Quando si sostiene tutto e il contrario di tutto, l’atteggiamento più naturale consiste nell’estraniarsi: se non posso capire, o avere quantomeno un opinione di riferimento, meglio non occuparsene oppure aderire a quella più accettata. A meno che non si abbia il tempo e la possibilità di affrontare quel fatto in prima persona: un’opzione per pochi in una società che, oltre il lavoro e la necessità di un reddito, non lascia grandi spazi.
Se la censura assumeva già negli anni ’70 una dimensione inaccettabile per i regimi democratici e liberali, l’unico modo per poter tentare d’influenzare le masse rimaneva quello di creare una sostanziale disaffezione, parcellizzando quindi le notizie (sempre più specialistiche) e creando “luoghi” di controllo autorevoli dei flussi delle informazioni come le televisioni e le redazioni di giornali, veri e propri centri di potere (grazie ai finanziamenti stratosferici di corporazioni interessate).
L’obiettivo era, ed è, quello di trasformare ciò che doveva essere censurato in ciò che si doveva ignorare e rappresentare invece le uniche possibilità in campo, selezionandole, ad uso delle classi privilegiate e a consumo della fantomatica società civile.
Il business e allo stesso tempo il privilegio di appartenere all’elite dell’”informazione” di massa spiega come, aldilà dei casi di corruzione e di manovre oscure, non ci sia in realtà migliore “servo” del “servo volontario”. Se credi a quello che dici risolvi il problema etico rispetto alla correttezza dell’informazione e non metti a rischio il tuo ambìto posto di lavoro. Una psicologia che possiamo riscontrare ovunque e che non scomoda presunte sette per tramare ordini su vasta scala, come d’altronde non sarebbe possibile: al massimo puoi tentare una mossa ma risulta impossibile gestire matematicamente la complessità delle interazioni che questa comporterà strada facendo.
Va da sé che tutta la controinformazione dal basso e di movimento che dagli anni ’70 ai primi anni ’90 del secolo scorso, era frutto di inchieste atte a demistificare questi meccanismi e a veicolare fonti più attendibili, ma ignorate dai media mainstream: basti pensare, ad esempio, a tutto il lavoro sull’ingerenza statunitense, il supporto e la pianificazione sia delle dittature che dei governi liberaleggianti in Sud America. A distanza di 30/40 anni la desecretazione degli atti e documenti di carattere interno agli USA ha, in gran parte, confermato il lavoro portato avanti dai movimenti di controinformazione. Oppure, per restare in Italia, le contro-inchieste sulle stragi di stato o il malaffare tra politica e mafia hanno costretto la magistratura a revisionare i processi-farsa e i depistaggi messi in atto.
Con internet e la sua diffusione assistiamo però ad una maggiore frammentazione di questo lavoro d’inchiesta e demistificazione, che si accompagna ad una “solitudine” sociale dove il confronto fra coloro che operano in questo senso viene a mancare e le fonti da cui si attinge sono spesso inattendibili o, peggio, inesistenti. E questo è solo il primo dei problemi.
Si è passati quindi da un lavoro di vera inchiesta, atta a verificare le fonti governative per confutarle, ad affermazioni vere e proprie di teorie che spiegherebbero tutto o quasi, basate a volte su incongruenze delle versioni ufficiali, ma più spesso sulla mole di affermazioni, notizie e fatti riportati, copiaincollati, rimbalzati o “condivisi” da altri. Chi sono questi altri? Non ha importanza, importa il j’accuse, importa l’analisi nella sua “logica interna” dannatamente lineare seppur indimostrabile. Dell’attendibilità delle fonti, dell’autorevolezza degli autori, del significato dei contenuti o di una parte di essi se ne può fare a meno. E questo è il secondo e fondamentale problema.
LINGUAGGI, CONTENUTI E OBIETTIVI DELLA “NUOVA” DESTRA
I primi vagiti dell’antiglobalizzazione di metà anni ’90 e che da Seattle ha permesso una diffusione dell’opposizione al neoliberismo e alle nuove forme del capitalismo, hanno visto proprio internet come veicolo e in modo “originale” anche come piattaforma organizzativa della protesta.
Nel frattempo da destra la contrarietà al “mondialismo” (che è poi il termine con cui gli eredi del terzoposizionismo nelle varie salse e ancor più i fautori della nuova “geopolitica” chiamano la globalizzazione), seppur più lentamente, si è fatta strada usando questi nuovi mezzi di comunicazione e, a partire dalla fine degli anni ’90, ha cominciato a diffondere in rete i propri contenuti: analisi antimperialiste a senso unico (il male sono solo gli USA e chi ci va dietro) e teorie complottiste di ogni genere, dalle più spinte come l’autoattentato alle Torri Gemelle fino al signoraggio delle lobby dei banchieri, la sovranità monetaria e la nazionalizzazione dell’economia industriale.
Quasi mai in queste teorie si fa riferimento all’anticapitalismo, mai che si mettano in discussione le forme con cui il potere si autoalimenta e non c’è nessuna critica alla gerarchia, come se bastasse l’uomo buono o della provvidenza per cambiare le cose. Mai che si faccia riferimento poi alla diseguaglianza sociale e quindi al conflitto di classe: i termini più gettonati sono “la gente”, “il popolo”, la “nazione”.
Questo linguaggio dovrebbe essere immediatamente associato a idee che di “nuovo” non hanno nulla e che si rifanno invece ad una sorta di epoca perduta, un presunto passato glorioso, una nostalgia del “si stava meglio quando si stava peggio” in cui la “natura” gioca sempre un ruolo fondamentale, così come l’identità nazionale o europea o ancora euroasiatica.
Un linguaggio caro proprio al fascismo che cominciò a diffondersi nelle sue maschere nazional-rivoluzionarie già nelle prime diaspore del socialismo del primo Novecento, sia in Italia che in Germania allo stesso modo di oggi, cooptando i più suggestionabili, i meno coscienti e facendo leva sul disorientamento che una grave crisi economica reca nelle classi più deboli. Per non contare l’opportunità che il capitalismo intravede, rispetto ad un’alternativa effettivamente rivoluzionaria che sovverta cioè profondamente il potere e gli strumenti che gli sono propri, quando va bene sovvenzionando la reazione, quando va peggio lasciando fare.
Queste teorie, ma anche solo parte di esse, sono poi riprese e inserite in “prodotti” più targhettizzati dove al loro interno si mischiano fatti reali con altri indimostrabili, notizie vere assieme ad altre fasulle, creando un miscuglio inestricabile di informazioni tenute assieme da una grande teoria di fondo: c’è chi ordisce e chi subisce inconsapevolmente, in una sorta di “matrix”.
Centinaia e centinaia di operazioni, blog, video, portali (in certi casi amatoriali, in altri apertamente commerciali) che spaziano dal finto atterraggio sulla luna alla vera genesi del mondo imputabile ai “rettiliani” passando per gli “Illuminati” che tramano da secoli fino al finto Bin Laden o alla finta morte di Gheddafi. In Italia, come esempio, c’è l’imbarazzante docu-film “Zero” di Giulietto Chiesa sugli attentati dell’11 settembre 2001.
Il più riuscito fra questi prodotti è certamente “Zeitgeist” (2007), nato come web-film di Peter Joseph e divenuto “movimento” con tanto di adepti, prendendo inizialmente spunto dal modello (RBE) realizzato dal sociologo e futurista Jacque Fresco (che però dal movimento stesso ha preso le distanze nel 2011).
Ma se queste teorie trovano facili consumatori fra giovani e giovanissimi, a tentare di convincere il palato di scettici più maturi, magari in un periodo di disorientamento ideologico, ci pensano i cosiddetti pensatori della “nuova” destra.
Nuova per modo di dire, se si accetta acriticamente l’autodefinizione che gli stessi si sono dati nell’evoluzione delle analisi che dall’euroasiatismo alla vocazione imperiale europea, dal differenzialismo all’ecologia profonda, sostanziano i contenuti “altermondialisti”, quindi apparentemente comuni all’antiglobalizzazione, contingenti rispetto ad alcuni attori odiosi delle politiche nazionali e internazionali come le “banche”, le “guerre”, le “lobby” finanziarie ecc.
Apparentemente comuni, appunto, perché in realtà se da queste analisi, che partono spesso da presupposti condivisibili, si prova a seguirli nel loro sviluppo fino alle proposte finali, ecco che l’operazione ideologica ci appare per quello che è: la riproposizione di un mito passato da ripristinare, di un sistema di relazioni dove la gerarchia non è un male (in quanto “naturale”), dove l’idea del capo spirituale (a volte declinato come aggregato etnico, altre come impero piuttosto che come “comunitarismo” identitario) risolverebbe i conflitti. Se ognuno, come comunità identitaria con un passato (autocostruito) e una “vocazione” futura, restasse fedele a se stesso; se le tradizioni, gli usi e i costumi non si contaminassero, aggregandosi semmai per territori uniformi in “spirito” e geografia, ecco che il razzismo non avrebbe più bisogno di avere un nome: sarebbe di per sé applicato.
E ancora la “nazione” ritornata “comunità” in spirito e in tradizione potrebbe prosperare con la propria Banca, con il proprio “leader”, con il proprio popolo unito, padroni e subalterni assieme, in un industrialismo ecologico quanto basta affinché le “leggi di natura” regolino i rapporti sociali. Questi sopra i presupposti di un “oltrismo” astorico e aclassista.
Dicevamo di questi odiosi attori, questi centri di potere: attori lo sono certamente, ma non possono essere certo fautori né creatori di un sistema ben più complesso in cui gli interessi sono, a volte apertamente altre volte sottotraccia, in conflitto fra di loro.
Conflitti tra stati e “imperi”, fra gruppi di pressione sia politici che economici dove il gioco delle identità, i nazionalismi e le religioni sono strumentali alla contesa di questi interessi.
Può però un complotto mondiale reggere senza un “grande fratello” mondiale? Certamente no, alcuni allora usano il sempreverde ebraismo declinato a volte in sionismo altre in Israelofobia ma sempre come lobby transazionale. Altri preferiscono rifarsi ad americanismo totalitario, qualcuno in un complotto capital-marxistico (i finti nemici d’un tempo).
Ma non avevamo già condannato il “capitalismo di stato” ovvero il socialismo reale o di caserma? Pare che la “nazionalizzazione” e la “sovranità monetaria” non destino la stessa diffidenza, infatti assomigliano molto ai tentativi nazifascisti dove, invece di un ipotetico “sol dell’avvenir”, ci si accontenta di un mite ma confortevole “focolaio” nazionale.
AUTORI, SITI E GRUPPI ORGANIZZATI
Tra gli autori più affermati di questo nuovismo reazionario c’è Alain de Benoist, che fra gli italiani ha come cassa di risonanza un Massimo Fini o un Marco Tarchi, entrambi facilmente inquadrabili.
Il primo, Fini, è un “antimodernista” difensore anche del fondamentalismo, se autoctono e non troppo bellicoso, oltre che fervido antifemminista (celebre l’articolo uscito sul Fatto Quotidiano dove scrisse, a proposito di due ragazze stuprate da un pastore macedone, che se l’erano cercata, dovendosi successivamente scusare pubblicamente). Creatore del Movimento Zero, aggregato politico propugnatore delle “piccole patrie”, contro la globalizzazione anche dei diritti, noto è uno dei loro striscioni che recitava “Noi stiamo con i Talebani” contro la Guerra in Afghanistan.
Il secondo, Tarchi, già noto vicesegretario del Fronte della Gioventù fascista, fuoriuscito dall’MSI e coniatore di quel “italiani esuli in patria” con cui classificò il neofascismo “oltre la destra e la sinistra” e che oggi, docente universitario, gira l’Italia proponendo corsi di geopolitica.
Così come tradotto e citato è il russo Aleksandr Dugin, ispiratore e organizzatore del Partito Nazional Bolscevico nel 1992 e di altre successive formazioni di carattere nazionalista o meglio sarebbe dire nazional-socialista come il Fronte Nazionale Bolscevico e il Partito Eurasia.
In realtà, pur ispirandosi ad alcuni pensatori dell’eurasiatismo russo come Nikolaj Trubeckoj, Pëtr Savickij e Georgij Florovskij, Dugin rispolvera un filone già collaudato (come ben documentato nell’ottimo libro “I fantasmi di Weimar – Origini e maschere della destra rivoluzionaria” di Marco Rossi) proprio dai nazionalbolscevichi tedeschi negli anni Trenta e come venne teorizzato nel dopoguerra da Jean Thiriart col movimento di Jeune Europe.
Si tratta di idee vecchie, di raggruppamenti chiaramente fascisti, se non apertamente nazisti, da cui trassero spunto negli anni ’70 molti gruppi nazifascisti del cosiddetto “spontaneismo armato” e dell’area che gli gravitava attorno sul piano culturale.
Il ciarpame, che negli ultimi anni s’è accumulato e diffuso e di cui in parte trattiamo in questo articolo, non è per forza direttamente o dichiaratamente proveniente da questi autori, idee o ideologie. A volte i riferimenti sono indiretti, spesso però il linguaggio e i contenuti sono gli stessi e per la gran parte dei casi avviene quello che avevo già accennato e cioè un rimescolamento confuso di concetti e fatti anche condivisibili, messi assieme a proposte e teorie di fondo destrorse e reazionarie.
Fare una disamina e un indice di tutti i siti, i portali, i blog che pescano in parte da questi contenuti, da questi autori o da altri loro scopiazzatori in salsa nostrana è compito arduo.
Si possono citare “Stato & Potenza”, “Lo Sai?”, “Comedonchisciotte”, “Luogocomune”, “InformareXresistere”, “Iconicon” e davvero molti altri.
Si posso trovare testi di A. de Benoist o di Massimo Fini, altri di Dugin o di autori che riprendono gli stessi assunti aggiornandoli con fatti accaduti o presunti tali e più in generale si ritrova di tutto come in un minestrone politico, in modo che ognuno possa riconoscere qualcosa che confermi le proprie “verità” non curandosi delle contraddizioni logiche e dell’assenza delle fonti, tanto meno dei riferimenti a cui sono legati.
Si ritorna quindi all’idea chomskiana della sovrapproduzione d’informazione, funzionale all’oblio della memoria (considerata ormai una zavorra) e al fantomatico superamento di destra e sinistra come se fossimo davvero attori di un film di fantascienza dove è possibile montare e rimontare, tagliare e rimaneggiare, pezzo per pezzo, quello che si è costruito in termini di relazioni sociali, politiche ed economiche nel tempo che ci ha preceduto.
La differenza rispetto al passato è che prima a contendersi questo monopolio erano i vari governi, mentre oggi avviene tutto in modo molto più caotico senza un preciso disegno: è di fatto una lotta tutti contro tutti.
SOCIALIZZARE I SAPERI
La globalizzazione non è che la forma odierna del capitalismo: la necessità di lasciare briglie sciolte al flusso di capitale e al profitto pone in essere il bisogno di ripensare gli stati. Lo stato nazionale, finzione post giacobina, non è più utile nella sua funzione liberale di gendarme.
I diritti, concessi dopo genocidi, guerre, restaurazioni e rivoluzioni, in Occidente diventano onerosi mentre possono essere usati come cavallo di troia in quelle vaste aree del pianeta dove le risorse fanno gola ma la mancanza di una “rappresentanza” o “governance” risulta indigesta.
Al contrario, in altri casi le dittature paiono meglio funzionare nelle relazioni diplomatiche e pertanto possono essere ignorate. Dietro a queste dinamiche macroeconomiche sussistono contraddizioni e quindi conflitti interimperialistici dove USA, Gran Bretagna o Cina o Russia si contendono egemonie territoriali e neocolonialiste a colpi di guerre finanziarie o di conflitti combattuti per ora tramite stati satelliti o sotto protettorato, un giorno forse in maniera diretta facendo ripiombare in un nuovo conflitto mondiale la cosiddetta culla della civiltà.
Nell’opporci a queste politiche, abbiamo bisogno di tutto tranne di chi a un impero ne contrappone un altro, al progresso contrappone primitivismi più o meno passati e ancora meno abbiamo bisogno di affratellarci secondo il motto “il nemico del mio nemico è mio amico” con nazional-qualsiasi-cosa di volta in volta amici di dittatori come Gheddafi, Assad, Ahmadinejad o Lukashenko in una sorta di abbraccio antimperialista cioè antiamericanista come se Cina, Russia, Libia o Iran abbiano meno ambizioni imperiali, se non in virtù della loro contingente capacità offensiva in tal senso, grande per alcuni, modesta per altri. E che riservano però con generosità ai propri cittadini.
Quest’idea se applicata al passato ci avrebbe portati a sostenere l’alleanza nazifascista nella seconda Guerra Mondiale contro quella angloamericana, o a parteggiare per lo stalinismo contro i paesi non-allineati negli anni ‘60.
A chi comoda tutto ciò se non a chi a quella eredità fa riferimento? O comunque nella terza-posizione indica la via in un particolarismo contro l’internazionalismo?
Gli anarchici pur trovandosi a scegliere i peggiori dei nemici, i nazifascisti, non accettarono certo l’idea che l’unica alternativa fosse quella degli stati buoni contro quelli cattivi, convinti com’erano che alla fine, scelto il male minore, la guerra avrebbe avvantaggiato sempre i padroni tra i vinti come tra i vincitori che usarono operai, contadini e internati come carne da macello.
E come finì la scelta antisovietica della Jugoslavia e la schiera dei paesi non-allineati? La bontà dell’idea di fuoriuscita dai due blocchi contrapposti USA-URSS che animò questo tentativo naufragò di li a pochi anni quando quegli stessi stati si rivelarono per quello che erano e cioè portatori d’interessi delle classi privilegiate: l’India andò contro il Pakistan, il Pakistan contro il Bangladesh, la Cina contro l’India, il Vietnam contro la Cina, la Cambogia contro il Vietnam, la Libia contro il Ciad, il Marocco contro la Libia, la Giordania contro l’OLP, il Kenya contro l’Uganda, l’Iraq contro l’Iran ecc.
Le uniche alleanze possibili e accettabili sono tra i proletari, fra gli sfruttati ovunque essi siano, senza frontiere e senza stati. Così facendo non si corre il rischio di ritrovarsi fascisti e autoritari fra i coglioni.
Imparare a riconoscerli è fondamentale.
Cominciando magari col non averceli fra i testi e le notizie che leggiamo e divulghiamo.
An Arres
[1] Edward S. Herman, Noam Chomsky, Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media, New York, Pantheon Books, 2004.