CIE di Gradisca: la gabbia riapre (agg.02/07)

Dal Piccolo

2014-07-02

TOMASINSIG: PORTERÒ A ROMA IL NO AL CIE DI TUTTO L’ISONTINO

di Luigi Murciano GRADISCA Missione romana sul tema-Cie per il sindaco Linda Tomasinsig. La neo prima cittadina sarà protagonista di un’audizione in seno al Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione di cui peraltro il vicepresidente è il deputato isontino Giorgio Brandolin. Una visita calendarizzata da tempo, ma che diventa un’occasione irripetibile per ribadire la contrarietà del territorio alla riapertura del Cie chiuso da novembre, e nuovamente in odore di riapertura dopo la notizia – peraltro nell’aria da tempo – che all’ex Polonio non si sono mai fermati i lavori di ristruttrazione e ripristino della sicurezza. A Roma Tomasinsig porterà la contrarietà non solo di Gradisca, ma di tutto il territorio isontino. «La nostra posizione è arcinota da tempo – argomenta il sindaco -: siamo profondamente contrari a una riapertura del Cie e pure a un ampliamento del Cara, tanto più se questo significasse un aumento della capienza attuale che è ai limiti. Su questo siamo sostenuti a tutti i livelli – dice Tomasinsig -: Regione e Provincia condividono pienamente la posizione del Comune». Il sindaco della Fortezza è determinatissimo. Pare quasi richiamare alle sue responsabilità il ministro dell’Interno Angelino Alfano, «impegnatosi pubblicamente a tenere conto dell’opinione degli enti locali. Ebbene, gli amministratori dell’Isontino sono contrari alla riapertura del Cie, e farò in modo di rappresentare questa posizione condivisa al Comitato Schengen. Sapevamo che i lavori non si erano fermati, ma quella struttura non deve riaprire. Tantomeno come Cie». La stessa Tomasinsig e altri amministratori locali e associazioni del territorio avrebbero dovuto recarsi in visita all’ex Polonio per constatare l’avanzamento dei lavori. «Per un disguido il sopralluogo è saltato ma presto entreremo» assicura. E sul vicino Cara le idee sono altrettanto chiare: «Spiegheremo la nostra idea. Per i richiedenti asilo ci vuole un’accoglienza diffusa sul territorio, sulla base di piccole unità in diversi comuni. Solo così si può favorire l’integrazione e dare a queste persone risposte che non trovano all’interno del Cara e che un piccolo comune come il nostro, da solo, non può dare a 200 persone alla volta». Sul caso-Cie si è espresso anche un big del Pd come Pippo Civati: «Nonostante le grandi promesse fatte dal governo, pare che il Cie di Gradisca riaprirà: è una vergogna e dobbiamo mobilitarci perché venga fatto di tutto per impedire questa follia – ha affermato Civati -. Alfano disse a suo tempo che non si sarebbe riaperto il Cie contro la volontà delle istituzioni locali. Bisogna quindi ricordare a lui e al governo che le nostre istituzioni si sono già ampiamente espresse contro la riapertura di questo monumento alla violazione dei diritti e della dignità umana». «È intollerabile il fatto che il Cie di Gradisca, chiuso per le condizioni inumane e degradanti nelle quali versava, possa riaprire nei primi mesi del 2015 – afferma dal canto suo Michele Migliori, segretario dell’Associazione Radicale di Gorizia – I due governi che si sono succeduti nell’ultimo anno, al posto di trovare un rimedio alternativo all’internamento di immigrati giunti nel nostro paese per un futuro migliore, hanno deciso di ristrutturarlo, apportando delle non ben specificate “migliorie”. Cosa intende il ministero dell’Interno per ristrutturazione? Pare che le uniche modifiche effettivamente compiute siano le sbarre che coprono anche l’unica zona all’aperto».

 

 

 

da Il Piccolo del 29 giugno 2014

Dentro il Cie: la gabbia riapre

Visita esclusiva nella struttura per immigrati di Gradisca teatro di decine di rivolte violente

Il ministro Alfano aveva annunciato di volerla smantellare. Invece verrà riattivata nel 2015

 

Un immigrato davanti al muro con...

 

 

 

 

Un immigrato davanti al muro con reticolato del Cie di Gradisca

 

 

 

 

 

 

La visita in esclusiva de Il Piccolo. Lavori in corso. La struttura riaprirà nei primi  mesi del 2015. Di recente Alfano aveva ipotizzato la sua trasformazione in Cara 

Dentro il Cie di Gradisca il mostro che non chiude
un cielo di acciaio Nei tre settori (blu, verde e rosso) rafforzate le dotazioni anti-rivolta. Sbarre, reti e barriere in plexigas circondano ogni spazio

Roberto Covaz GRADISCA Un fiume di acciaio trattenuto da argini di mura. Un orizzonte verticale che si intuisce tra una sbarra e l’altra. Un cielo avvolto dalla ragnatela di una spessa rete metallica. E sotto un mondo con tre continenti ciascuno di un colore diverso: verde, rosso, blu. La bandiera della disperazione. Questo è il mondo chiamato Cie, centro identificazione ed espulsione. Questo è il mondo che sta dall’altra parte della cinta muraria dell’ex caserma Polonio di Gradisca d’Isonzo. Questo è un brutto mondo. Qualcosa comunque sta cambiando a Gradisca e nell’Isontino. Si percepisce un inedito atteggiamento di apertura o meglio di “non paura” delle istituzioni a mostrare la realtà delle strutture governative di accoglienza, favorito anche dal fatto che non ci sono stranieri ospitati in questo momento. Era, forse tornerà ad essere popolato da persone non identificate, immigrati extracomunitari senza un nome né un cognome, che sul territorio italiano si sono macchiati di crimini anche gravissimi e che hanno scontato la pena in carcere. Da fantasmi. Dopo il carcere per loro si spalancano i portoni blindati dei Cie. Strutture che assomigliano molto a un carcere. Recentemente, in commissione Schengen della Camera, il ministro dell’Interno Alfano aveva lasciato intendere che il Cie di Gradisca non riaprirà, se tale è la volontà delle istituzioni locali. Ma a leggerla più attentamente quella dichiarazione non sembra così netta. Anzi, il Cie riaprirà. Al Cie di Gradisca gli ospiti sono suddivisi in gruppi da otto. Ciascuno di questi gruppi è sistemato in spazi prestabiliti. A loro disposizione ci sono una quarantina di metri quadrati di cortile; uno stanzone con otto letti; una sala con otto tavoli e 42 seggiole e due gabinetti con la porta scorrevole priva di serratura. Una volta conclusi i lavori di ristrutturazione, forse a settembre di quest’anno, il Cie di Gradisca sarà in grado di contenere 238 persone senza nome né cognome. Lo Stato italiano di loro conserva una fotosegnalazione, lo pseudonome, le impronte digitali. Il Cie da alcuni mesi e per molti altri ancora è un cantiere. Si stanno effettuando lavori per 800 mila euro dopo le rivolte dell’estate-autunno del 2012. Nel settore rosso un gruppo di extracomunitari incendiò i materassi composti da materiale ignifugo ma che per effetto della liquefazione sprigionarono un fumo acre, denso, nero. Una nube tossica. Poi si arrampicarono sui tetti a gridare la loro disperazione. Prima, però, alcuni devastarono la moschea interna alla struttura. Un’azione di inaudita violenza per i musulmani, segno di quanto fosse incontenibile la loro rabbia. Sappiamo bene inoltre dei danni provocati nell’infermeria, resa inagibile, degli episodi di grave autolesionismo (perfino l’inghiottimento di pile) con lo scopo di farsi ricoverare all’ospedale e da qui scappare. Con il prefetto Vittorio Zappalorto siamo entrati al Cie. È la prima volta che un giornalista è ammesso nella struttura senza che sia obbligato ad accodarsi a qualche visita istituzionale. «Sono i momenti peggiori – spiega Antonina Cardella, responsabile del Cara per la Connecting People, la società che ha gestito e forse gestirà di nuovo il Cie – . Quando gli ospiti hanno la possibilità di parlare con qualche politico l’effetto rabbia è immediato. E le rivolte sono la conseguenza». Il prefetto ipotizza che il Cie, una volta rinnovato, possa tornare alle sue originarie funzioni dai primi mesi del ’15. «Siamo in una fase di valutazione su come proseguire i lavori – spiega Zappalorto – . La mia esperienza nel settore mi suggerisce di considerare in un’ottantina il limite massimo di immigrati da ospitare. Andare oltre a questo numero in caso di rivolta comporterebbe conseguenze pesanti sotto il profilo dell’ordine pubblico. Certo, spetta al ministro decidere». Il settore che più angoscia del “nuovo” Cie è quello degli impianti sportivi. Due campetti di cemento dove si può giocare anche al calcio. Anche qui il perimetro è delimitato da travi di acciaio. Sono alte una quindicina di metri e sorreggono una rete metallica per evitare possibili fughe dall’alto. Sembra impossibile che un essere umano possa arrampicarsi sulle sbarre e saltare oltre da quell’altezza. Invece succede. «Per tutto il giorno non fanno altro che pensare a come uscire – spiega il prefetto – Si tratta di persone aitanti e allenate, con fisici straripanti. Riscono in imprese apparentemente impossibili». La luce nelle gabbie filtra anche attraverso lastre di plexigas antisfondamento, ma pure queste sono devastate nelle rivolte. Nell’ala delle mense si stanno sistemando gli impianti elettrici e idraulici: sembra di essere in certi musei di arte contemporanea ad osservare installazioni dall’oscuro significato. Qualsiasi impianto, porta, finestra, reter, sbarra, lavandino, letto e cesso sono destinati a saltare come tappi in caso di ribellione. Certo, la decisione sul numero massimo di ospiti non spetta a me». «Diciotto mesi di permanenza in un Cie sono tanti – ammette il prefetto – . In generale, se non si riesce a identificarli nei primi tre o quattro mesi, è probabile che non si riuscirà a farlo nemmeno dopo. Non c’è adeguata collaborazione con le ambasciate e i consolati esteri. E l’identificazione e la successiva espulsione con accompagnamento alla frontiera comportano costi altissimi per la collettività. Per non parlare dei rimpatri». Per ora il Cie dorme sotto il solleone estivo. Ma tra qualche mese potrebbe ribollire di rabbia incontenibile. È il tempo, ora, adesso, che la politica isontina e regionale faccia davvero la sua parte. 

 
 
la storia
Nel 2000 la decisione del governo D’Alema di istituire il centro 

GRADISCA La vicenda del doppio centro immigrati di Gradisca d’Isonzo inizia nel 2000: nel pieno dell’emergenza-clandestini sul confine goriziano, quando l’allora ministro Bianco (governi D’Alema e Amato) indica nell’ex caserma Polonio un sito ideale. Il Consiglio comunale di allora dice sì a un centro di prima accoglienza, ma si dichiara contrario a una struttura di detenzione. Con i governi Berlusconi (ministri Scajola e Pisanu) si scopre che Gradisca ospiterà invece proprio un Cpt, centro di permanenza temporanea e di detenzione amministrativa, costato 17 milioni. Dopo anni di battaglie legali e manifestazioni, la struttura apre i battenti nel 2006. Conta su 248 posti destinati alla detenzione amministrativa propedeutica al rimpatrio per reato di clandestinità. Un luogo di contraddizioni: ci sono le sbarre ma i poliziotti restano fuori; gli immigrati non sono detenuti ma “ospiti”, e quindi la fuga non è evasione, ma “allontanamento volontario”. Vi convivono (con la Bossi-Fini fino a 18 mesi) dal clandestino, allo straniero con gravi precedenti costretto a un supplemento di pena, all’immigrato che ha lavorato in Italia per un decennio salvo ritrovarsi coi documenti in disordine. Nel 2007 la rimozione delle sbarre “per maggiore umanizzazione”. Nel 2008 apre invece la seconda struttura, il Cara, altri 150 posti destinati ai richiedenti asilo. Nel 2009 per la vigilanza esterna vengono impiegati anche i militari. Gli interni vengono resi inagibili dalla furia dei reclusi. In 6 anni la struttura non è mai stata a regime. Nel 2009 un pacco bomba esplode nell’ufficio dell’allora direttore Dal Ciello. Nel 2010 tre rivolte in pochi giorni, feriti sia agenti che immigrati, almeno 70 evasioni riuscite. Nel 2012 l’appalto per la nuova gestione viene congelato dai tribunali che dopo una lunga battaglia danno ragione all’attuale coop Connecting People, giunta seconda nella gara. Parallelamente lo stesso cda del consorzio siciliano, alcuni dipendenti, e due funzionari della Prefettura finiscono sotto indagine per presunte fatturazioni false e presenze degli ospiti secondo l’accusa “gonfiate” rispetto al reale numero di immigrati presenti. Emerge anche il dramma dei dipendenti e sanitari che lavorano nella struttura: lamentano costantemente mesi di ritardo nell’erogazione degli stipendi. Nel novembre del 2013, dopo una nuova ondata di rivolte e devastazioni, la struttura del Cie viene dichiarata inagibile e chiude i battenti per consentirne i lavori di ristrutturazione. Pressochè contemporaneamente viene aumentata a 200 persone la capienza del Cara, con una sezione di accoglienza per gli immigrati sbarcati sulle coste siciliane. Il mondo politico si interroga sulla nuova destinazione del Cie: le opzioni sono lasciarlo chiuso, riaprirlo, utilizzare questi spazi per migliorare la vivibilità del Cara, o addirittura farne il Cara più grande del Nord Italia. Luigi Murciano
 
 
LA SCHEDA 
Un’attesa anche di 18 mesi prima della complessa espulsione 
Il Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca è uno dei più grandi d’Italia. In precedenza chiamati Centri di permanenza temporanea ed assistenza (Cpta), i Cie sono strutture destinate al trattenimento – convalidato dal giudice di pace – degli stranieri extracomunitari irregolari destinatari di un decreto d’espulsione. Previsti dall’articolo 14 del Testo unico sull’immigrazione, i centri nascono per “evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e consentire la materiale esecuzione, da parte delle forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari”. Il decreto legge numero 89 del 23 giugno 2011, convertito in legge (numero 129/2011), ha esteso il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri portandolo da 180 giorni a 18 mesi complessivi. Ad aprile di quest’anno il parlamento ha dato il via libera definitivo alla cancellazione del reato di clandestinità. Ad essere stata abrogata, è stata però la sola parte della Bossi-Fini che prevede il reato di ingresso illecito in Italia. L’arresto viene mantenuto per gli immigrati che rientrano nel nostro Paese dopo un provvedimento di espulsione. 
 
Rispetto al periodo iniziale le condizioni di vivibilità sono
sensibilmente peggiorate. In estate i box diventano forni

 

Un luogo opprimente
operatori costretti
a stare dietro alle sbarre
di Stefano Bizzi wGRADISCA Le ultime immagini del Centro d’identificazione ed espulsione di Gradisca contrastano nettamente con quelle “storiche” risalenti al tempo del Centro di permanenza temporanea. Tra queste e quelle è passato più di un lustro, ma sembra un secolo. Per una ragione o per un’altra, alla stampa è stato sistematicamente impedito di entrare nell’ex caserma “Ugo Polonio” e chi lo ha fatto non ha potuto scattare fotografie. Oggi in via Udine non ci sono ospiti, ma quello che emerge dal confronto degli scatti è comunque il ritratto di un luogo opprimente. All’apertura dell’allora Cpt, gli spazi esterni alle camerate erano separati da sbarre d’acciaio montate su dei bassi muretti in cemento. Formavano delle sorte di “vasche”. Quelle gabbie, però, vennero presto smontate “per umanizzare il centro”. Da un punto di vista formale gli immigrati in attesa di riconoscimento sono sempre stati considerati trattenuti, non prigionieri e tecnicamente non si è mai registrata alcuna evasione: ogni fuga è stata rubricata sotto la voce allontanamento. Acrobazie lessicali a parte, il ripetersi negli anni dei disordini interni ha spinto le autorità a prendere le necessarie contromisure per arginare le azioni di protesta. Le manifestazioni degli “ospiti” sono però via via cresciute con la trasformazione del Cpt in Centro d’identificazione ed espulsione. In questo caso la metamorfosi non è stata solo linguistica, è stata anche sostanziale. Con il passaggio da un nome all’altro, i tempi di trattenimento si sono dilatati passando da un massimo 30 +30 giorni a sei mesi, per poi arrivare fino all’anno e mezzo. Questo, anziché disincentivare l’arrivo di nuovi clandestini, ha creato tensioni sempre maggiori all’interno delle strutture per immigrati. Tra atti di autolesionismo e vere e proprie rivolte, per tentare di arginare le sommosse sono state quindi rimontate le vasche. Si ritenne che la divisione degli spazi in zone più circoscritte avrebbe reso più agevole il controllo degli immigrati. Per evitare l’effetto carcere, anziché sbarre metalliche, sono stati però utilizzati pannelli antisfondamento in plexiglas. Se da un punto di vista estetico la soluzione è di certo meno impattante, da un punto di vista pratico impedisce il passaggio dell’aria e, in estate, le vasche si trasformano in veri e propri forni dove è impossibile rimanere per lunghi periodi. Gli stessi pannelli trasparenti sono stati usati anche per separare i corridoi di collegamento tra le camerate. Il risultato è identico: manca l’aria. Dal momento che gli offendicula (ferri ricurvi verso il basso) non si sono rivelati sufficienti ad impedire l’accesso ai tetti, sopra gli spazi comuni sono state inoltre tirate delle reti metalliche. Dovrebbero teoricamente rendere impossibili le arrampicate, ma alla prova dei fatti si riveleranno poco più di un semplice fastidio. Suona quasi paradossale, ma, alla fine, a finire dietro le sbarre sono stati gli operatori del centro. Per proteggere il centralino, dove ai tempi del Cpt bastava un vetro, con il Cie per prevenire gli assalti al personale di turno è stato necessario montare una gabbia d’acciaio.