Centri commerciali, dipendenti costretti a restituire la paga

E a chi sostiene la necessità di nuovi centri commerciali nell’isontino giustificandoli anche con i posti di lavoro ecco la risposta!

 

da Il Piccolo, 13 gennaio 2012

Centri commerciali, dipendenti costretti a restituire la paga

Gorizia, un caso limite nella selva inestricabile dei contratti. Il sindacato isontino: «Ci sono commesse che resistono con gli psicofarmaci»

 

di Tiziana Carpinelli

GORIZIA Solo l’occhio attento lo nota. Tra le corsie a impilare rigatoni e bottiglie tra gli scaffali. Oppure in cassa, a battere scontrini. Perché lui, il precario della grande distribuzione mica lavora a turni regolari. Non ha l’opportunità di diventare, per il cliente, un volto familiare. Perché una volta macina 8 ore di domenica, per dar fiato al commesso part-time che è stato assunto a tempo indeterminato (il turno pieno è merce rara in questa selva di contratti), la settimana seguente ne fa 4 di sabato. E si busca pure due ore infrasettimanali di apertura e due di chiusura nella stessa giornata, così non riesce a seguire neppure uno dei tanti corsi formativi promossi dagli enti pubblici.

È l’altra faccia del luccicante mondo della Grande distribuzione organizzata (Gdo), in provincia di Gorizia. Dove fra supermercati, ipermercati e discount, la superficie commerciale è cresciuta così intensamente negli ultimi anni (145mila metri quadrati nell’Isontino, dove risiedono 142mila 400 abitanti) che l’offerta ha quasi finito per superare la domanda. Una faccia deprimente, sia capisce, dove si arriva perfino ad assumere un lavoratore col voucher, camuffando come occasionale una prestazione quale quella di scaricare la merce dai camion che, in realtà, viene svolta con regolarità, almeno per un certo periodo e fino alla soglia massima di 5mila euro annui. L’anomalo impiego di questo strumento, che non assicura al lavoratore né maternità o malattia, né disoccupazione o assegni familiari, è di recente finito nel mirino degli ispettori dell’Inps che, a quanto pare, hanno avviato accertamenti in un ipermercato della provincia. Ma si tratta solo dell’esempio più macroscopico di una situazione che, la segreteria di Gorizia della Filcams-Cgil, non esita a definire allarmante. Il contratto più diffuso è quello, pure a tempo indeterminato, del part-time ma col correttivo di una flessibilità spinta (pagata sotto forma di indennità mensile di 10 euro lordi al mese), che di fatto rende il dipendente alla mercé dell’azienda. Azienda che comunica i diversi turni settimanali solo il venerdì precedente e distribuisce i lavoratori 7 giorni su 7, rafforzando l’organico in particolare nel week-end, quando l’afflusso di clienti è maggiore. Se la formula può andar bene a chi ha vent’anni, diversamente avviene per madri o padri di famiglia, che invece hanno bisogno di stipendi più consistenti rispetto ai medi 600 euro netti al mese (per 20-24 ore alla settimana) previsti per la categoria ed elemosinano la possibilità di fare ore in più, assecondando ogni richiesta del datore. Chi si trova in questa situazione è comunque fortunato, perché almeno ha il lavoro garantito, pur sacrificando la vita familiare. Poi ci sono tutti gli altri, e tutte le altre forme di contratto. Con meno diritti e tutele. «Ho visto lavoratori andare avanti a psicofarmaci per la situazione stressante cui erano sottoposti a causa della stipula di documenti – spiega Ilaria Costantini della segreteria provinciale Filcams-Cgil – di cui non avevano compreso del tutto le clausole». Il caso è quello di una giovane che era stata assunta con contratto di associazione in partecipazione, una «modalità diffusa soprattutto nei piccoli negozi monomarca delle gallerie dei centri commerciali, con alle spalle un marchio noto». In pratica funziona così – chiarisce -: la paga dell’associata in partecipazione, cioè la commessa, dovrebbe avvenire per contratto a consuntivo di bilancio: a fine anno la catena ripartisce gli utili tra gli associati e se è andata bene la lavoratrice percepisce quanto le è dovuto, altrimenti il rischio, come ci è capitato di osservare, è che il lavoratore debba coprire la sua parte della perdita, chiaramente in termini di retribuzione. Non solo: può essere minacciata, come è accaduto, di dover restituire gli stipendi percepiti. Questo perché i pagamenti in realtà non avvengono a consuntivo di bilancio, ma attraverso degli anticipi mensili sugli utili, ovvero quote fisse di compenso del valore di una paga base da commessa.

Se il brand ha avuto un’annata difficile, basta ventilare la possibilità di richiedere indietro una parte della retribuzione e, nel 99% dei casi, il dipendente terrorizzato molla il lavoro, così la catena si è facilmente sbarazzata di una persona».