ANTIRAZZISMO/ Udine volantinaggio per la chiusura del CIE

Rilanciamo la lotta

per la chiusura

del CIE

di Gradisca d’Isonzo

Il volantino che segue è stato distribuito venerdì 26 a Zugliano fuori dalla sala del Centro Balducci dove si svolgeva la presentazione del rapporto di Medici senza frontiere sui CIE. In fondo trovate l’articolo del messaggero.

volantino_no_cie

 

Solo testo

 

Siamo stati tutti idealmente sulla gru a Brescia, ma in realtà nessuno di noi lo farebbe o ce la farebbe. E’ stata una lotta incredibile, un’avventura che riesce grazie alla forza della disperazione, ma anche per merito di quelle abilità acquisite solo da parte di chi sa convivere con i disagi, il pericolo, il rischio, il vuoto e le intemperie. Meritavano un elogio, un premio, un permesso di soggiorno e un posto di lavoro ed invece che fine hanno fatto? Quello che si sa è che per intanto vari immigrati che manifestavano sotto la gru sono stati presi, messi nei CIE e poi deportati. Questa valutazione sulla temerarietà di queste persone, va considerata anche quando si parla dei CIE, strutture, in quanto tali, di tortura psicologica, peggio delle carceri. Infatti è perfino ovvio che da un carcere hai la speranza, un giorno, di ritornare in libertà ed invece un Centro di Identificazione ed Espulsione ti comunica lo stato d’animo che per te è finita. Un CIE trasforma persone in cerca di fortuna in persone prive di speranza e quindi disposte a tutto, pur di fuggire, anche all’autolesionismo sempre più cruento, nonostante il tasso effettivo di rimpatri, sia com’era chiaro, e come è confermato dai fatti, molto basso (30%). I CPT di Turco-Napolitano ed ancor peggio i CIE di Maroni sono, anche in una logica interna al sistema, strategie sostanzialmente inutili (e molto costose!) per i rimpatri e per la riduzione del tasso di “clandestinità”.

 

E’ ormai chiaro che lo scopo primario dei CIE è politico e propagandistico nonché un buon affare per chi li costruisce, li gestisce e li ristruttura.

 

La storia del CIE di Gradisca d’Isonzo, da questo punto di vista, cioè come imbroglio politico, è particolarmente scandalosa. L’idea fu partorita ancora dal centro sinistra con Enzo Bianco come Ministro dell’Interno, per un’emergenza confinaria locale, poi del tutto risolta.

 

Nella foto, Enzo Bianco e Giorgio Brandolin (Presidente della Provincia di Gorizia a quel tempo) sul confine con la Slovenia il 6 dicembre 2000. 15 giorni dopo questa visita era già pronto il Decreto di istituzione del CPT. “Con Decreto interministeriale del 22.12.2000 parte della ex caserma Ugo Polonio di Gradisca d’Isonzo è stata individuata quale centro di permanenza temporanea ed assistenza di cui all’art, 14 del Testo Unico 25 luglio 1998 n° 286.” Ed ancora: “Con decreto del Ministero dell’Interno n. 300 del 6 marzo 2001 i lavori di realizzazione di suddetto centro sono stati secretati per cui la relativa aggiudicazione è avvenuta in deroga al disposto della legge 11 febbraio n° 109 ricorrendo l’ipotesi prevista dall’art. 33 della stessa legge” (fonte Prefettura di Gorizia). In realtà il CPT non aprì subito, in primo luogo perché non più “necessario” al territorio e poi perché probabilmente avevano deciso di farci sopra una mangiata con un’opera di ristrutturazione pompata. Successivamente il sito, oramai politicamente ed istituzionalmente sdoganato, è stato ereditato dal centro destra che lo ha trasformato in un affare milionario e in una struttura ritenuta d’importanza strategica nazionale (anche se continuavano a raccontare che doveva servire al massimo al bacino del Nordest). Il CPT è stato aperto nel marzo 2006 ed il nuovo Governo Prodi, che aveva promesso di chiuderlo, in realtà lo ha lasciato in funzione ed i politici del centro sinistra regionale si sono così definitivamente smascherati. Però, in pochi anni, con nostra grande soddisfazione, i reclusi hanno sfasciato tutto. Nuie pôre, e àn dite i sorestans: “fa e disfà al’è dut un lavorà”. E allora giù altri soldi ed altri appalti, più o meno trasparenti, per continuare con quest’aberrazione. Infatti tra breve il CIE verrà temporaneamente svuotato per i lavori di ripristino, ma crediamo che non durerà a lungo integro.

 

Speriamo quindi in un risveglio nella Città di Gradisca dì Isonzo, oramai oggettivamente stressata da questa situazione, ma anche e soprattutto, nella coscienza civile di tutta le Regione per rimettere all’ordine del giorno il problema della chiusura definitiva del CIE di Gradisca che rappresenta una vergogna ed un corpo estraneo per tutta la popolazione di buon senso della nostra Regione. Per il CIE di Gradisca il movimento di opposizione ha già subito varii processi, costruiti allo scopo di reprimere le lotte; si trattava di montature messe in piedi da Carabinieri, Prefettura e Questura e ai processi tutti gli imputati sono stati assolti.

La lotta per lo sradicamento del Lager di Gradisca non può fermarsi e dopo un paio d’anni di stanca e di latente accettazione ci sembra indispensabile rilanciare la mobilitazione per la chiusura completa di questo obrobrio .

 

INIZIATIVE.

Ad Udine il “Centro Sociale Autogestito in esilio” dedicherà il pignarûl del 6 gennaio 2011 (che si svolgerà con ogni probabilità nel parcheggio dell’ex frigorifero vicino a Piazzale Cella). oltreché alla lotta contro la repressione, anche all’antirazzismo e alla chiusura del CIE. A fine gennaio – primi di febbraio (data da definirsi) si svolgerà un’assemblea pubblica nella Sala Bergamas a Gradisca d’Isonzo per lanciare la proposta di una manifestazione Regionale per la chiusura del CIE di Gradisca da svolgersi nel marzo 2011, a cinque anni dalla sua apertura, per chiudere questa pagina nera nella storia della nostra Regione.

 

Coordinamento Libertario Regionale contro i CIE

www.info-action.net

 

Fip Udine 25 novembre 2010 via Volturno, via Scalo Nuovo, via ………….…

 

 

Dal Messaggero Veneto del 28/11/10

 

POZZUOLO. Che cosa c’è al di là del muro? Fino al 1992, a Milano c’era uno zoo. «Ma gli animali non si possono trattare così», disse qualcuno, e allora lo zoo fu chiuso. Sette anni dopo, nella stessa città, al di là dello stesso muro avevano ammassato donne, uomini, vecchi. Filo spinato e baracche per dormire. Persone che non avevano commesso reati, ma erano entrate in Italia, erano rimaste, molte avevano accettato di lavorare, magari senza permesso di soggiorno. Di posti così, come a Milano, in Italia ce ne sono molti, anche vicino a noi. Uno a Gradisca, il Cie – Centro identificazione espulsione, nato da un’idea del ministro dell’interno Enzo Bianco per un’emergenza confinaria locale poi del tutto risolta. Mantenuto dalle amministrazioni politiche successive, aperto come Cpt – Centro di permanenza temporanea nel 2006, con la promessa di essere chiuso (dal governo Prodi), ma in realtà lasciato poi in funzione. È di poche ore la protesta di uomini lì reclusi che per attirare l’attenzione sulla loro situazione drammatica si sono cuciti le labbra ed è di pochi giorni la richiesta dei comitati quali la Rete Diritti cittadinanza Fvg, Tenda per la pace e diritti, Gruppo immigrazione e salute Fvg, Asgi, Centro di accoglienza Ernesto Balducci Onlus, di riportare al centro del dibattito politico la questione dei Cie, ovvero gli ex Cpt, ragionando dopo molti anni dalla loro apertura, sulla concreta funzione di utilità, sui costi economici e sociali connessi alla loro gestione e sulla effettiva tutela dei diritti delle persone che vi sono trattenute. Non si sono sottratti alla questione don Pierluigi di Piazza, fondatore del Centro di accoglienza Balducci, che ha ospitato, venerdì sera, un incontro per riflettere sulla realtà dei centri per gli stranieri: i relatori, Gianfranco Schiavone (componente del direttivo nazionale dell’Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e Genni Fabrizio (presidente della Tenda per la pace e i diritti) hanno documentato nei loro interventi un quadro di desolante orrore. I centri strutturati come prigioni – hanno ricordato – ospitano uomini e donne in attesa di essere identificati. Sei mesi rinchiusi in un luogo al quale mancano le regole della prigione, dove l’organizzazione è gestita da enti in appalto, cooperative o dalla Croce Rossa, ma soprattutto realtà in cui non si può entrare per controllare cosa accade. Ha spiegato Alvise Benelli, di Medici senza frontiere (Msf): «Chi sta nei centri, per la maggior parte è già stato identificato. Sono soprattutto gli ex detenuti quelli che sono rinchiusi nei Cie». E il secondo rapporto di Msf sui centri per migranti Cie, Cara e Cda, raccontato dal suo portavoce Benelli, scatta una fotografia delle condizioni di vita e della situazione socio-sanitaria nei centri, senza tralasciare l’evoluzione della normativa italiana in materia di detenzione per migranti sprovvisti di permesso di soggiorno e di accoglienza per coloro che chiedono asilo. Dall’indagine emerge il dramma vissuto da migliaia di persone e molti sono gli interrogativi che si pongono sulle possibili alternative. Perché chi emigra appartiene soprattutto a categorie vulnerabili e bisognose di assistenza medica e psicologica adeguata. «In questi luoghi – testimonia Medici senza frontiere –, prima ancora della libertà fisica. le persone vengono private della dignità». L’auspicio di Msf e della società civile – è statO detto al Centro Balducci – continua a essere quello di squarciare il muro di silenzio e di ipocrisia che avvolge la vita di migliaia di invisibili, nel nostro Paese. Fabiana Dallavalle