Ieri pomeriggio siamo stati vittime dell´ennesimo episodio di
repressione violenta e ingiustificata durante
un presidio dichiaratamente pacifico davanti al CIE di Corso
Brunelleschi a Torino. I manganello ed i
lacrimogeni della Polizia di Stato sembrano essere ormai diventati in
Italia i mezzi indiscussi per ricordare
costantemente a tutti cosa sono la democrazia, chi comanda e cos´è la
libertà d´espressione.
Ovviamente nessuno si aspettava alcun tipo di attenzione mediatica
considerato il tema caldissimo della
lotta contro i CIE e le politiche razziste del governo italiano. Si
correrebbe il rischio che nell´opinione
pubblica si insinui il dubbio che l´assioma “CIE = carcere per il
marocchino che spaccia e violenta le tue figlie
quando vanno ai Murazzi” non sia del tutto valido.
Due i dispacci di stampa (dettati verosimilmente dalla Questura di
Torino) e pubblicati da Adnkronos ed
AGI: «Torino, 1 ottobre. Tensioni a Torino davanti al Centro di
permanenza temporanea di corso
Brunelleschi, dove una cinquantina di anarchici si è ritrovata per una
delle periodiche proteste davanti alla
struttura, con battitura di ferri sui pali. La polizia ha effettuato
una carica di alleggerimento quando il
gruppo di contestatori si è gettato contro i muri di cinta. Quindi la
situazione è tornata tranquilla.»
Ecco i fatti.
Ieri pomeriggio una cinquantina di persone di varie “sensibilità” si
sono riunite dalle 17 davanti al CIE di
Corso Brunelleschi a Torino per un presidio di solidarietà ad Ismael,
ragazzo peruviano in attesa di
espulsione, ed a tutti i gli altri prigionieri. Le intenzioni erano
davvero delle migliori: tutti a volto scoperto,
qualcuno ha portato i bambini per farli giocare insieme nel giardino,
anche una donna incinta fra di noi.
Un presidio davvero tranquillo, a tratti festante, che alternava a
momenti musicali interventi al microfono
da parte della comunità peruviana, messaggi di solidarietà in francese
ed arabo e “battiture” con materiale
di fortuna sui pali della luce (variante nostrana dei “cazerolados”
argentini). Che avessero proprio voglia di
menare le mani i celerini e i funzionari di polizia si vedeva già
dall´inizio del presidio. Tirava un´aria strana.
Carreggiata sbarrata, tante camionette, una cinquantina di poliziotti
sovraeccitati in bella fila con casco
sulla testa, il tamburellare sulla mitraglietta d´ordinanza, gli
sguardi di sfida, il manganello ed il lancia-
lacrimogeni pronti per l´uso. Anche un funzionario con fascia
tricolore a tracolla – fascia che, come sapranno
alcuni, sarebbe d´obbligo indossare perché gli ordini di “carica”
siano ben fatti da un punto di vista legale.
Negli occhi dei celerini un odio ed una rabbia sconcertanti: la voglia
di spaccare teste ed uccidere è
chiaramente palpabile. Ed infatti intorno alle 19 arriva il pretesto:
un cagnolino malauguratamente fugge
verso di loro. Alcuni ragazzi si staccano dal presidio per
recuperarlo. Viene interpretato come
inequivocabile gesto di minaccia nei loro confronti e di tentativo di
penetrare all´interno di un carcere
circondato da due fila di mura alte più di 6 metri (!). Parte una
carica violentissima senza alcuna
preoccupazione per la presenza fra noi di bambini e donne (una anche
visibilmente incinta). Si tenta di fare
un cordone per permetterne la fuga ma dura pochi attimi. La polizia
carica ripetutamente e violentemente
inseguendo addirittura le persone per interi isolati e picchiando
selvaggiamente chi durante questa corsa è
caduto a terra. Una vera e propria caccia all´uomo con insulti rivolti
alle donne (“togliti di mezzo troia se
non ne vuoi altre”) e con diversi feriti causati dall´accanimento
delle forze dell´ordine. Il bilancio è di
qualche testa aperta, molte contusioni ed alcune fratture agli arti
superiori. Le biciclette rimaste in terra ed
il furgone con l´impianto audio vengono vandalizzati da poliziotti
probabilmente troppo lenti per
raggiungere qualcuno ma sicuramente abbastanza frustrati per accanirsi
e danneggiare i nostri oggetti. “
Simonetta
Ed ecco una cronaca tratta da senzafrontiere
Torino. Come bufali impazziti
Sabato 1 ottobre. Nel prato di fronte al CIE di corso Brunelleschi l’atmosfera è serena. Se non fosse per quel muro, mille volte segnato da graffiti di libertà, mille volte cancellati e mille volte rifatti, sarebbe un pomeriggio come tanti in quest’estate tardiva.
C’è una settantina di persone: antirazzisti di un po’ tutte le aree, giovani immigrati che le gabbie le hanno assaggiate, famiglie, specie peruviane venute a sostenere la lotta di Ysmael, un attivista molto noto anche al di fuori della sua comunità. Ysmael è rinchiuso in una delle gabbie e da settimane si sta battendo perché la sua vita è a Torino e non la vuole lasciare. Il 27 settembre hanno provato a caricarlo su un aereo diretto a Lima. Pareva l’epilogo scontato della vicenda ma Ysmael ha cominciato a gridare, a divincolarsi, finché la sua protesta ha attirato l’attenzione del pilota, che gli ha fatto la domanda più ovvia, gli ha chiesto se voleva partire per il Perù. Di fronte al suo diniego ha ordinato di farlo sbarcare: i poliziotti non hanno potuto fare altro che ricondurlo al CIE, nella cella di isolamento nella quale ha trascorso buona parte della sua prigionia.
Il presidio di sabato è un segnale di solidarietà che mette insieme tanta gente diversa, accomunata dalla volontà di chiudere i CIE, di dare sostegno alla lotta di tutti i reclusi, in questi mesi sempre più forte in ogni angolo d’Italia.
Che gli uomini in divisa siano maldisposti lo si capisce sin dal primo momento: controviale bloccato dalle camionette, antisommossa schierati con casco e manganello, funzionari in fascia tricolore, quella che, almeno a Torino, mettono solo per poter dichiarare legittima una carica.
Musica, interventi, slogan. Niente altro.
Il pretesto lo fornisce un cucciolo di cane, un quattro zampe impertinente che non ha ancora capito che ci sono limiti che non è salutare valicare. Il cucciolo attraversa la strada, si dirige verso gli uomini in divisa, una ragazza lo rincorre gridando “vado a prendere il cane!”. I gentiluomini in divisa fanno partire qualche insulto, qualcuno risponde. Poi calano i caschi e partono.
Sembravano “una mandria di bufali impazziti” scriverà il giorno dopo una donna. Ha una mano gonfia: sin è guadagnata una manganellata quando ha sporto il braccio nel vano tentativo di fermare un poliziotto che si stava accanendo contro il figlio di 15 anni, che, come lei, era seduto nel prato. Al pronto soccorso al ragazzo metteranno il collare e daranno 7 giorni di prognosi.
I feriti sono numerosi. Una compagna viene colpita ripetutamente alla testa, si ripara con la mano e si aggiudica una frattura scomposta al mignolo. Gli altri hanno sul viso e sul corpo i segni dei colpi ricevuti.
Un folto gruppo di antirazzisti viene caricato per centinaia di metri lungo via Monginevro, affollata di auto e bus, come in ogni sabato pomeriggio. Solo all’angolo con corso Montecucco i funzionari richiamano la forza.
In questura devono aver deciso. Basta presidi solidali davanti ai CIE: i prigionieri devono restare isolati, come i tunisini rinchiusi nelle navi-prigione dopo aver incendiato il centro di contrada Imbriacola.
Diciamolo chiaro. A questi picchiatori in divisa, dopo quattro mesi rinchiusi nella gabbia di cemento e filo spinato alla Maddalena di Chiomonte, qualche soddisfazione bisognava pur darla. In Valsusa i manganelli, i calci in faccia, lo scricchiolar d’ossa sinora glielo hanno potuto concedere solo a piccole dosi. Gas sparati ad altezza d’uomo, qualche sasso dall’autostrada ma nulla più. In via Grattoni sanno che la Valsusa è una polveriera e non hanno il coraggio di scatenare i bufali.
Le rivolte e le fughe degli immigrati si stanno moltiplicando in tutta Italia, spezzando reti e rompendo le gabbie. A Torino il 22 settembre si sono ripresi la vita in 22.
La voglia di libertà brucia le frontiere, simboliche e reali messe a guardia di un ordine feroce. Spezzarlo è una scelta morale ben prima che politica.
Ormai lo stanno imparando anche i cuccioli di cane: c’è un lato sbagliato della strada, quello che corre lungo i muri cinti di filo spinato, difesi da uomini armati e cattivi.
Domenica 2 ottobre. In serata c’è agitazione tra le gabbie del CIE. L’Ansa parla di un tentativo di fuga, bloccato dalla polizia. Un immigrato colpito al viso da un candellotto lacrimogeno sparato come un proiettile è stato ricoverato all’ospedale Martini.