TRIESTE: «Gli agenti non si curarono di come stava Rasman»

Da Il Piccolo del 04/10/10

«Gli agenti non si curarono di come stava Rasman»

 

Sarà la Corte di Cassazione a decidere in modo definitivo se gli agenti di polizia Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biase hanno sbagliato e con la loro azione di contenimento hanno provocato la morte di Riccardo Rasman, il giovane di 34 anni stroncato nel suo monolocale di via Grego 38 il 27 ottobre 2006. Saranno i giudici della Corte di Cassazione perché il difensore dei tre agenti della ”volante”, l’avvocato Paolo Pacileo, ha già annunciato il proprio ricorso contro la sentenza di condanna a sei mesi con la condizionale per omicidio colposo pronunciata in primo grado e ribadita all’inizio dell’estate dalla Corte d’appello. Pochi giorni fa sono state depositate in cancelleria le motivazioni con cui la presidente Francesca Morelli e consiglieri Donatella Solinas ed Edoardo Ciriotto hanno ribadito che l’intervento effettuato dagli poliziotti nel monolocale di Borgo San Sergio era legittimo e comprensibile, ma le modalità con cui si è protratto nel tempo al contrario hanno infranto la legge. Ecco in dettaglio cosa si legge a pagina 8 della sentenza di secondo grado. «È pacifico, per ammissione degli stessi imputati e dei vigili del fuoco, oltre che degli agenti delle volanti uno e due, che Riccardo Rasman fu tenuto ammanettato e prono per terra, mani e piedi, con il corpo compresso per lunghi minuti, almeno cinque e mezzo, senza che qualcuno si fosse preoccupato delle sue condizioni di salute e men che meno si fosse pensato di rimettere il giovane in una posizione adeguata che gli consentisse di respirare in maniera agevole. Se anche vi fosse stato il rischio, come affermano gli imputati, che Riccardo Rasman potesse colpirli con una testata o avventarsi contro di loro e i vigili del fuoco con il peso del proprio corpo, si osserva che non potevano di certo essere i rischi di eventuali colpi a far cambiare idea agli agenti sulla necessità di salvaguardare, oltre che la propria incolumità anche quella del Rasman, facendogli assumere dopo l’ammanettamento una posizione consona che gli consentisse di respirare senza difficoltà. Il che non è stato fatto». La sentenza va al di là di questi agghiaccianti dettagli e affronta anche la tesi sostenuta dal difensore che aveva fatto sentire in aula, nel corso dell’istruttoria, un sovrintendente-istruttore della polizia di Stato. «Al di là della genericità delle domande poste, le risposte dell’istruttore non si sono certo incentrate sul tema più rilevante del giudizio, e cioè di quale deve essere la condotta di un agente nella fasi che seguono l’ammanettamento. Sembra alla Corte – si legge ancora nelle motivazioni – che un conto è disquisire di tecniche di difesa personale e di ammanettamento impartite nelle scuole, altro, della condotta degli imputati, i quali quando Rasman era stato messo nelle condizioni di non nuocere, immobilizzato a terra, prono, con le braccia e le gambe legate, fu mantenuto nella posizione di contenzione al suolo per almeno cinque minuti e mezzo, esercitando per questo periodo una pressione che si è dimostrata letale». Nel processo d’appello il difensore della famiglia Rasman, l’avvocato Giovanni Di Lullo, aveva chiesto che Francesca Gatti, l’agente di polizia che aveva partecipato all’ammanettamento, e che in primo grado era stata assolta, fosse condannata come i colleghi a risarcire il danno provocato dall’intervento. La richiesta è stata respinta in quanto la poliziotta «non ebbe alcun ruolo, in quanto è accaduto dopo l’ammanettamento». (c.e.)