Dal Piccolo
22/05/12
Suicidio ucraina, era terrorizzata di tornare in patria
Ora è chiaro perché Alina Bonar Diachuk, arrestata nel giugno scorso a Gorizia, ha messo fine ai propri giorni all’interno del commissariato di Opicina, dov’era rinchiusa anche se la Magistratura ne aveva ordinato la liberazione. Lei temeva di dover ritornare in carcere una volta rimpatriata forzatamente in Ucraina. Lì aveva già scontato un lungo periodo di detenzione quando era ancora minorenne. Era accusata di omicidio ed era stata riconosciuta colpevole. Nemmeno con gli avvocati che le sono stati sporadicamente accanto in Italia Alina aveva voluto parlare di quella condanna a 11 anni di carcere. Poche parole e poi il silenzio. «È vero, ma non voglio dire nulla». Faceva capire ai difensori di aver scontato un lungo periodo in cella, dov’era entrata poco più che ragazzina. Diceva anche che aveva pagato il suo debito con la legge. Viene da chiedersi allora perché avesse tanta paura, tanta disperazione se tutto era ormai depositato nell’archivio della sua vita e del casellario giudiziario del suo Paese. Alina Bonar, detenuta per 6 mesi al Coroneo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e poi liberata dal giudice Laura Barresi, temeva di essere rimpatriata forzatamente: quando ha ritenuto che non esistessero più vie alternative alla sua fuga senza fine, ha cercato di uccidersi. Il tentativo attuato nel carcere del Coroneo, non ha avuto esito. È stata soccorsa e salvata. All’interno del Commissariato di Opicina dov’era stata rinchiusa dopo la liberazione decisa dalla magistratura, la sua disperazione ha avuto la meglio sui sistemi di controllo e sugli occhi degli agenti di polizia che avrebbero dovuto sorvegliarla per impedire altri gesti disperati. Invece per 40 minuti nessuno ha osservato lo schermo del video. Alina si è impiccata e nessuno ha visto il suo gesto. Solo l’occhio di vetro di un obiettivo di una inutile telecamera. Secondo il pm Massimo De Bortoli, il magistrato titolare dell’inchiesta sulla morte di Alina Bonar, anche altre decine di stranieri a rischio di espulsione potrebbero essere stati trattenuti dalla Polizia nello stesso Commissariato in attesa dell’espulsione. Sono in corso numerosi interrogatori.c.e.
20/05/12
Una ex compagna di cella pagherà i funerali di Alina
Il Sap esprime tutta l’amarezza e lo stupore per la quantità e la pesantezza di accuse mosse pubblicamente da più parti contro la Polizia in genere, la Questura di Trieste nel suo complesso e a tutta l’attività di gestione delle pratiche relative all’immigrazione. «Le teorie contenute in alcuni interventi scritti e gli slogan lanciati da qualche manifestante vanno ben oltre i fatti realmente accaduti e riscontrati. La verità è che le doverose valutazioni che la giustizia sta facendo riguardano un episodio purtroppo drammatico e una specifica procedura attinente ad una piccola parte dell’attività della struttura», sta scritto in una nota. «Peraltro questa procedura non era affatto segreta, tutti i soggetti interessati ne erano a conoscenza senza che mai fosse stata messa in discussione. Va anche rilevato che tra le varie tematiche emerse nella vicenda in parola, vi è quella ideologica, aspetto che purtroppo lascia spazi a molteplici interpretazioni. Proprio per questo vogliamo ribadire che l’azione quotidiana di tutela della sicurezza di tutti i cittadini garantita dalla Polizia triestina non manifesta e non ha mai manifestato fenomeni di carattere discriminatorio». di Corrado Barbacini «Ho conosciuto Alina in carcere e sono sgomenta per la sua tragica fine in una cella del commissariato di Opicina. Era una brava ragazza. Ho saputo che i familiari non hanno la disponibilità economica per pagare i funerali. Sono pronta a farlo io». Queste parole piene di umanità arrivano da una ex detenuta del Coroneo che per un lungo periodo ha vissuto nella stessa cella di Alina Bonar Diachuk, la giovane ucraina che si è impiccata il 16 aprile in una stanza del commissariato di Opicina dove era detenuta illegalmente essendo stata liberata due giorni prima dal Coroneo grazie a una sentenza di patteggiamento del giudice Barresi. Da quel giorno il suo corpo si trova all’obitorio di via Costalunga a disposizione dei familiari che vivono a Milano. Sono andati a trovarla accompagnati dall’avvocato Sergio Mameli. Ma non hanno la possibilità economica di pagare i suoi funerali e la sua sepoltura. Racconta Maria Dina P., 65 anni, friulana ed ex detenuta: «Siamo diventate amiche. Alina e la sorella Antonina (che poi è stata scarcerata per motivi di salute e vive con la madre a Milano) erano due brave ragazze, coinvolte in una storia più grande di loro. Io ero come la loro mamma. Stavamo sempre assieme. Passeggiavamo sempre noi tre. Mi tenevano sottobraccio…» «Alina – prosegue Maria Dina – mi raccontava spesso delle sue paure. Dell’Ucraina, un paese tremendo dove non avrebbe mai voluto tornare. Sì, ne aveva proprio il terrore. Perché lì, diceva, in prigione succede di tutto. Ti torturano e ti violentano, anche…» Racconta ancora la donna: «L’unica sua gioia era quella di lanciare dei biglietti dalla finestra della cella, messaggi destinati al suo fidanzato anche lui detenuto che ogni giorno durante l’ora d’aria la aspettava nel cortile. Parlavano così. Lui a gesti, lei con quei biglietti in cui c’erano solo frasi d’amore. Ma le guardie un giorno se ne sono accorte e inevitabilmente lei e la sorella sono state trasferite nella cella 309, davanti a quella dov’erano fino a quel giorno, la cui finestra dà sul cortile interno. Alina non poteva più gettare biglietti. E lei e la sorella si sentivano sempre più abbandonate». Maria Dina P. ricorda il giorno del tentato suicidio. «Ero nella mia cella quando sia Alina che la sorella si sono tagliate le vene. Non vedevano più un futuro, una possibilità. Non sapevano quando sarebbero uscite dalla galera. Era estate, ricordo, faceva molto caldo». Le due donne erano state salvate dagli agenti della Penitenziaria. Ma nelle relazioni su quanto accaduto non è mai stato riportato nulla riguardo la debolezza sia di Alina che della sorella. Uno stato di disperazione che si è nuovamente manifestato quando, all’interno del commissariato di Opicina, Alina si è tolta la vita impiccandosi a un termosifone. Dice ancora Maria Dina P.: «Mi sono già messa in contatto con le pompe funebri. Sono pronta a pagare. Ho saputo che il Comune di Milano ha rifiutato la sepoltura, ma forse qui in Friuli, in qualche paese, c’è una possibilità. Altrimenti il corpo potrebbe essere cremato e le ceneri consegnate alla madre e alla sorella che vivono in Italia. E questo forse potrebbe essere l’unico modo perché Alina rimanga nel nostro Paese. Le ceneri non saranno mai espulse e nemmeno imprigionate in un commissariato»
19/05/12
«Ucraina suicida, infamante il teorema dell’ideologia»
Il caso di Alina Bonar, suicida al commissariato di Opicina, «doveva essere un momento di riflessione e correzione delle prassi di trattamento degli stranieri in attesa di espulsione». Lo scrive il segretario provinciale Uil Polizia Paolo Di Gregorio: «Al contrario, abbiamo visto spettacolarizzazione e superficialità, che distruggono vite e storie di alcuni poliziotti. Emblematica la vicenda di Carlo Baffi», funzionario della Questura indagato, «dove una storia di impegno professionale viene demolita pubblicamente nonostante non consegni alcun eccesso repressivo o sbavatura ispirata ideologicamente, ma un’impostazione fondata su direttive precise». «Non in discussione» la fiducia nella Procura, prosegue Di Gregorio, il sindacato ritiene «inaccettabili le modalità dell’attività investigativa» su Baffi, cui sono stati sequestrati libri antisemiti. Il dubbio è che «l’ipotesi accusatoria sia venata da un teorema legato alla supposta appartenenza politico ideologica». Teorema «offensivo e infamante per tutta la polizia triestina». Infine, l’invito a Polizia e Magistratura a «restaurare un clima di reciproca fiducia».