ECO-CATASTROFI/ Il Po avvelenato dai “lumbard”

Corrriere 28 febbraio

IL DISASTRO

Scaricati altri veleni nel Lambro

Scaricati altri veleni nel Lambro: «Sciacallaggio»

11:04 CRONACA Nuova grande macchia inquinante sul fiume: «Pericolo emulazione»

 

 

Repubblica 27 febbraio

Il padre Po avvelenato dai figli
in 5 anni l’inquinamento è triplicato

 

Veleno e cemento oltraggiano acque millenarie
Sindaci e ambientalisti sono in allarme

di GIORGIO BOCCA

Il padre Po avvelenato dai figli in 5 anni l'inquinamento è triplicato

IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l’ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è “il padre di tutte le inondazioni”, i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all’alto corso del Po più del ragionevole.

Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d’inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c’è il “materasso alluvionale” più profondo e più pregiato d’Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s’interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell'”arsenal dei viniziani”, gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d’acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall’alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.

Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l’unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all’area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: “I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d’acqua d’Europa, sono analoghi”. Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d’Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l’intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di “sfruttiamo l’esistente”.

Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, “esondare” in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel ’51 e nel ’94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.

Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. “Spero di morire prima di veder morto il Po” si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L’agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro “grange” o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione – sono belli i nomi fluviali – restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. “Solo pochi anni fa – mi dice un uomo del fiume – andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell’orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui”. Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l’argine, non si piegano all’onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei “bolognini” o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente. E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L’agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l’acqua del fiume prendevano l’acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L’inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce “rombante nelle notti di piena” semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a “canottieri” e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.

Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: “Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l’ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare”. Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all’assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l’auto ogni persona spende tre milioni l’anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l’acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell’autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d’acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest’anno a un convegno sul Po, c’erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c’era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento. La secessione non risolve nulla, ci vuole l’autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.

L’agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all’aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso “di gusto avariato”. Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c’era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come “pesce tirannico, crudele vorace” sia arrivato dal Baltico. “C’è una Lombardia – mi dice il dottor Gavioli assessore all’Ambiente della Provincia di Parma – che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un’altra che ha prodotto Craxi e Formigoni”, la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come “il paese più bello e il più abbondante di Europa”. Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall’Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall’Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l’Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.