La sperimentazione animale si fonda su un assunto che è quello che l’organismo animale è buono per essere usato come modello umano; farmaci, alimenti, cosmetici, nuove sostanze, tutto si testa sugli animali in base a questo principio.
In questo caso essere un modello significa essere simile, strutturato allo stesso modo, soggetto agli stessi risultati causa/effetto; ma non passivamente come il semplice manichino che usi per provare il vestito; per essere un buon modello occorre anche che il manichino abbia delle reazioni … insomma che dica “hai!” se lo pungi con lo spillo.
Ma la pratica della sperimentazione animale, per poter essere applicata con serenità di coscienza deve fondarsi anche su un altro assunto, che in realtà rappresenta l’inverso del primo; cioè che il modello è profondamente diverso dall’originale, cioè che l’umano è umano e che l’animale non è umano, e, proprio perchè animale non umano può essere vivisezionato, manipolato, ucciso, come un manichino privo di vita propria.
Evidentemente c’è qualcosa che non quadra, qualcosa che sta lì in quel “quasi” ma non “abbastanza” dell’animale che è umano e non umano allo stesso tempo.
Allora, con quali attrezzi filosofici, biologici ed epistemologici ci apprestiamo a ragionare in questa terra di mezzo che sono le sfumature nel passaggio da un livello di organizzazione ad un altro, in questo sfilacciarsi dell’animale verso l’umano, nei salti e nei percorsi dell’evoluzione di cui il vivente tutto è il risultato?
La sensibilità individuale e l’empatia sono le scialuppe sulle quali possiamo navigare in questo mare di contraddizioni e labirinti che si apre davanti a noi quando affrontiamo questi argomenti.
Eppure, pur essendo anche un nostro sentire, non possiamo non riconoscere quanto talvolta siano molto emozionali e poco razionali, importanti ma non sufficienti.
Ed è sufficiente l’approccio razionale? e sopratutto, su che cosa si fonda? Può essere il livello di sviluppo del sistema nervoso la nostra chiave di lettura?
Nel numero di settembre di una rivista sicuramente non schierata contro la sperimentazione animale come “Le Scienze”, si riportava uno studio di Jaak Panksepp in un articolo con il titolo: “Il topo che rideva”, sottotitolo “Anche gli animali hanno il senso dell’umorismo? Forse sì”. Il topo ride, se sollecitato in certi punti, come noi quando ci fanno il solletico ai piedi…., ride, …con la stessa espressione giocosa di un bambino. E’ evidentemente una modalità di specie che attraverso la giocosità crea coesione fra individui conspecifici ma non solo; “… indurre la risata nei giovani ratti favoriva la formazione del legame ratto/uomo: i ratti solleticati cercavano attivamente le mani umane che li avevano fatti ridere”.
Per suggestione di contiguità emozionale, al ridere si associa il piangere.
Nel mese di luglio di quest’anno c’è stata la Dichiarazione di Cambridge sulla coscienza; vale la pena riportarne il sunto finale: “Noi dichiariamo quanto segue: L’assenza di neocorteccia non sembra precludere ad un organismo l’esperienza di stati affettivi. Evidenze convergenti indicano che animali non umani hanno substrati neuroanatomici, neurochimici e neurofisiologici che permettono stati di coscienti in base ai quali avere comportamenti intenzionali. Conseguentemente, il peso dell’evidenza indica che gli umani non sono gli unici in possesso di substrati neurologici che generano coscienza. Animali non umani, inclusi mammiferi ed uccelli, e molte altre creature, inclusi i polpi, possiedono questi substrati neurologici”.
E’ ovvio che in questo approccio scientifico subentra un altro paradosso: per poter osservare che il topo ride, devi averlo tenuto in contenzione; ed i neuroscienziati, neurofarmacologi, neurofisiologi ecc di Cambridge per arrivare alla loro dichiarazione ne avranno sezionati di cervelli non umani…
Per prendere coscienza che loro sono coscienti, demolire così il secondo assunto sul quale si regge la sperimentazione animale e dire, usando una perifrasi attuale, che l’animale è “diversamente” umano.
A questo punto, volendo, possiamo anche rovesciare la prospettiva e guardare a noi come specie “diversamente” animale, possiamo guardare all’animale che siamo dal punto di vista bio-ontologico ed evolutivo. Perchè, se non siamo creazionisti e guardiamo all’evoluzione, sappiamo che siamo anche animali, la scimmia nuda, appunto; ma la scimmia che ha imparato a parlare, a creare simboli -come gli orsacchiotti di peluches che davano da stringere quale supporto psicologico ai parenti delle vittime dell’11.09.01, o, per restare all’attualità, le maschere di animale spesso usate a supporto di un’idea -squisitamente umana- di sessualità bestiale (pensate alle teste di maiale di gomma indossate alle feste da basso impero della destra romana…)-, a formulare concetti e, attraverso la scienza, ipotesi e paradigmi…
E siamo la specie che, grazie a queste qualità, si discosta dalle altre per la capacità di infliggersi violenza intraspecifica non necessaria: [ne avevamo accennato qui] guerre, schiavitù, sfruttamento, dominio.
E’ uno scostamento in negativo determinato dall’uso aberrato del substrato neuronale emergente dalla nostra neocorteccia, usato per un’aggressività predatoria ambientale ed extraspecifica senza precedenti, arrivata al punto, paradossale anche questo, di autodistruzione.
La pressione di necessità per mantenere la nostra struttura termodinamica, non è quella dell’animale. Oltre che saper costruire, noi sappiamo anche immaginare: utensili, oggetti, mondi… reali e virtuali. Una parte di questi può aiutarci a vivere anche facendo a meno della violenza oltre che intra, anche extraspecifica di cui la sperimentazione animale è componente….
Allora perchè non connotare il nostro essere “diversamente” animali per un qualcosa in più piuttosto che in meno?
Che ci giova la presenza di neocorteccia se sprechiamo questo tentativo dell’evoluzione incarnato nelle nostre teste, di fare della vita sul pianeta un’avventura unica?
DUMBLES / No vivisection
Marzo 17th, 2017 | General, Varie
Ieri a Udine c’è stata la manifestazione per chiedere la chiusura della Harlan, multinazionale che alleva e fornisce animali a numerosi laboratori di sperimentazione animale. Prendiamo spunto dall’iniziativa di ieri, per continuare una riflessione su questo tema nella convinzione che posti come la Harlan vanno chiusi ma le coscienze vanno aperte alla complessità dei problemi nei quali la sperimentazione animale è inserita. Buona lettura.