da Il piccolo
MARTEDÌ, 11 MAGGIO 2010
«Il lavoro non deve far morire, senza giustizia non c’è perdono»
La drammatica testimonianza di una vedova a causa dell’amianto
di TIZIANA CARPINELLI
MONFALCONE Lino è morto quattro giorni prima di andare in pensione. Lo aveva detto, l’aiuto primario di Venezia, alla moglie Nevia, vedova dell’amianto, che «entro Natale un angelo avrebbe vigilato su di lei e sui suoi tre figli». E così è stato. Lino Buzzi, sancanzianese, 36 anni indefessamente spesi entro le mura del cantiere navale di Panzano, è mancato il 26 novembre 2001, un lunedì, nel suo letto di casa, la famiglia stretta al capezzale. Aveva 58 anni. Lo ha ammazzato un tumore che non dà scampo: mesotelioma maligno alla pleura. Se lo piglia chi respira le fibre d’amianto. Gli esperti in camice bianco affermano che non si tratta di un cancro frequente, ma in zona già 2mila persone sono decedute per lo stesso male.
«Per sua fortuna e nostra grande disgrazia, mia e dei miei figli, se n’è andato in breve tempo – racconta la vedova Nevia Pacco, 62 anni, originaria di San Martino di Terzo d’Aquileia -: otto mesi di malattia e mio marito non c’era più. Non so quante volte, nelle preghiere, ho supplicato Dio che non soffrisse. Che non morisse soffocato, come muore chi è colpito da mesotelioma, e sono stata ascoltata: ha ceduto il cuore, Lino non ha patito, è spirato serenamente. L’unica mia consolazione».
Nevia è una friulana. Di tempra forte. Una che non si perde d’animo, che si rimbocca le maniche e affronta le avversità a muso duro. Solo una volta ha pianto di fronte al marito e poi non l’ha fatto più per quattro anni. «Se n’è andato senza riscuotere neppure la liquidazione. Senza acquistare il camper con cui saremmo dovuti andare in gita a Firenze. Senza godersi quel po’ di vita che, dopo tante fatiche, gli spettava. È un’ingiustizia a cui non mi rassegnerò mai», aggiunge.
Lino Buzzi aveva iniziato nel 1965 a lavorare alla Fincantieri come operaio tracciatore. Col gesso disegnava le sagome delle lamiere da tagliare per imbastire le navi. Un mestiere faticoso. D’estate gli s’incollavano le scarpe di gomma alla lastra di ferro, mentre d’inverno batteva i denti ai capricci della bora. Si era detto: «Devo migliorare la mia posizione». E così aveva riaperto i libri e si era messo a studiare. S’era iscritto ai corsi serali dell’istituto San Marco e aveva fatto tre anni in uno, diplomandosi al Nautico di Trieste. Grazie al titolo di studio era diventato capofficina e poi impiegato all’ufficio Cop (Controllo produzione). Si prodigava affinché i giganti del mare venissero su bene. Eseguiva anche i sopralluoghi a bordo dei sommergibili, fino all’ultimo varo del 1993.
«Era appena rientrato da una trasferta ad Ancona – riferisce Nevia – e una notte mi svegliò all’improvviso, dicendomi che sentiva una fitta sotto la scapola destra. Lì per lì pensai a un malore passeggero, mai avrei sospettato una malattia di questo tipo. Fu straziante. Il 19 marzo la prima radiografia, che evidenziò un alone alla pleura. Poi il prelievo delle cellule, per vedere se fossero cancerogene». Esito positivo. Ricovero a Monfalcone per una videotoracoscopia. Ad aprile, la conferma che si trattava di mesotelioma pleurico. «Tornammo a casa, senza tuttavia rassegnarci – prosegue -. È una frase fatta, ma davvero la speranza è l’ultima a morire. Andammo a Milano, all’Istituto oncologico diretto da Veronesi.
Il professor Pastorini, uno bravo, me lo disse chiaramente: ”Le prospettive sono due: il calvario ospedaliero oppure decidere di mollare tutto, andare alle Bahamas, e godere di quel po’ che resta”». Scelsero il calvario. Sapevano che non c’era speranza, ma optarono per le terapie. Seguì la tappa a Venezia. «Eravamo assistiti dal primario Vittorio Pagano – chiarisce – il reparto era ottimo. La ”sentenza” venne a giugno, il suo vice mi disse: ”A Natale avrete un angelo che veglierà su di voi”. Usò parole delicate, ma a me parve di sciogliermi sulla sedia. A lui non dissi nulla. E andammo avanti».
Lino iniziò la chemio al San Polo. Sei cicli, ma non andò oltre il quarto. «La terapia era un cocktail sperimentale di 7 farmaci diversi, provenienti dagli Usa – riferisce -. Inizialmente resistette, poi deperì sempre di più. Per l’organismo fu devastante. ”Se no xè per mi, almeno servirà a qualchidun altro”, diceva. È sempre stato un altruista. Ma i dolori si fecero più forti: andava avanti a bombole d’ossigeno e antidolorifici. Poi passò alla morfina. Gliela sminuzzavo, perchè non riusciva a deglutire». Morì a casa, per sua volontà. Era l’una di notte, vicino aveva la moglie e i tre figli Andrea, Federica e Roberta.
«Sarò sempre grata alla dottoressa Alessandra Cantarutti, che pur avendo un bimbo rimase con noi fino alla fine – aggiunge -. Lino è stato il primo e l’ultimo uomo che ho conosciuto: abbiamo trascorso 34 meravigliosi anni di matrimonio. Poi sono rimasta in apnea: per 4 anni non ho dormito, mi svegliavo a brevi intervalli e sentivo il suo respiro, mi voltavo a dargli un aiuto e lui non c’era. Avrei voluto stare male al posto suo, mai avrei pensato che se ne sarebbe andato prima di me. Non auguro a nessuno il mio calvario. Mi hanno salvato i nipotini».
«Morire per colpa del lavoro è ingiusto – conclude la vedova, dal 2002 in prima linea con l’Associazione esposti amianto -. Lino non s’è mai scagliato contro l’azienda: era orgoglioso di lavorare al cantiere. Ma per me è insopportabile accettare d’aver perso un marito per questo. Sarò serena solo quando chi ha reso ciò possibile se ne assumerà le responsabilità. E non parlo solo di mio marito, ma di tutte le 2mila vittime dell’amianto. Perchè si sapeva ch’era nocivo. Il perdono è una grande cosa, ma non può esserci senza giustizia. Va resa dignità ai nostri morti che non pensavano di sacrificarsi al lavoro». Nevia è una donna di fede. Dopo aver pregato per una morte senza dolore, ora prega per i processi.