Il Piccolo
GIOVEDÌ, 01 LUGLIO 2010
SEI MESI A TESTA COME IN PRIMO GRADO PER OMICIDIO COLPOSO
LA STORIA
I poliziotti erano intervenuti perché il disabile lanciava alcuni petardi dal terrazzo
Avevano tenuto premuto a terra il giovane provocandone l’asfissia
Caso Rasman, pene confermate per i 3 agenti
di CLAUDIO ERNÈ
Hanno sbagliato e la loro azione ha provocato la morte di Riccardo Rasman.
La Corte d’appello ha confermato ieri la responsabilità di Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biase nel decesso del giovane handicappato stroncato da un collasso cardiocircolatorio nel suo monolocale di via Grego. I giudici hanno ribadito al termine di una camera di consiglio protrattasi per un paio d’ore, la condanna a sei mesi di carcere con la condizionale inflitta ai tre agenti di polizia dal giudice di primo grado. E’ stata ribadita anche l’assoluzione, com’era accaduto nel gennaio del 2009, del quarto agente di polizia che era entrato di slancio nel monolocale di via Grego. Si chiama Francesca Gatti e Giovanni Di Lullo, legale della famiglia Rasman, riteneva dovesse almeno versare una quota del risarcimento. La Corte d’appello ha detto «no» esattamente a questa richiesta, come ha detto «no» al proscioglimento degli altri tre agenti sostenuto dal loro difensore, l’avvocato Paolo Pacileo. «E’ inevitabile il ricorso in Cassazione» ha confermato l’avvocato che anche ieri ha affermato che i poliziotti – imputati di omicidio colposo hanno agito rispettando i manuali di intervento e quanto è stato loro insegnato durante l’addestramento. Secondo il difensore si è trattato di una terribile disgrazia, del tutto imprevedibile.
Era il 27 ottobre 2006 e i quattro agenti assieme a due pompieri erano entrati di slancio nell’alloggio dopo aver tentato invano per una ventina di minuti di farsi aprire la porta. Dal terrazzo del monolocale di Riccardo Rasman, secondo l’allarmata indicazione dei vicini, erano stati lanciati pericolosamente in strada alcuni petardi. Da qui la richiesta di intervento, l’arrivo di due pattuglie della volante e dei vigili del fuoco.
«Per più di 20 minuti ho cercato di farmi aprire la porta. Ho parlato con Riccardo Rasman, ho trattato con lui» ha spiegato ieri in una pausa del processo Mauro Miraz. Era il capopattuglia e non ha disertato nemmeno un’udienza. Nè in primo grado, nè in appello. E’ stato guardato di sottecchi, ha sopportato atteggiamenti tutt’altro che amichevoli e frasi sibilate tra i denti il cui significato anche se poco percepibile, era chiarissimo.
«La porta dell’alloggio è stata aperta dai pompieri. Io sono entrato per primo con le mani alzate. Mi seguiva Francesca Gatti, una ragazza piccolina. Se avessimo voluto fare una irruzione vera e propria, non l’avrei mai schierata in quel ruolo quasi di punta. In precedenza Riccardo Rasman aveva profferito astruse minacce di morte. Speravo si fosse calmato. Invece si è avventato contro di noi con grande violenza e ne è scaturita una mischia a cui hanno partecipato anche due pompieri. Siamo riusciti a fatica ad ammanettarlo con i polsi dietro la schiena, mentre i vigili del fuoco gli hanno bloccato le caviglie con del filo di ferro».
Fin qui il racconto del capopattuglia che il giudice di primo grado ha ritenuto del tutto legittimo. Il tragico errore viene compiuto dai tre agenti quando Riccardo Rasman è già disteso a terra bloccata dalle manette e dal filo di ferro. «Si deve contestare ai poliziotti – si legge nella sentenza di primo grado -il comportamento tenuto quando Rasman era stato messo nelle condizioni di non nuocere. La colpa dei tre consiste nell’aver protratto la contenzione al suolo, esercitando per tanto tempo una pressione che si è rivelata fatale. Questo comportamento non è imposto e tantomeno previsto da alcuna norma, regolamento o manuale di addestramento delle forze di polizia. Ciò che è accaduto è inutile e ingiustificato».
Nella sentenza di primo grado il giudice Enzo Truncellito aveva scritto anche che «di fronte a un giovane che aveva compiuto uno sforzo enorme lottando come un leone e che dimostrava di essere in fortissimo debito di ossigeno, respirando con affanno, una qualunque persona – e per maggiore ragione dei poliziotti – doveva prevedere che tenere premuto il corpo a terra per diversi minuti, avrebbe significato comprometterne la respirazione e la vita».