Da Repubblica del 04/03/10
In gran segreto il governo ordina: via chi ha chiesto la sanatoria ma ha un’espulsione alle spalle
La linea dura applicata a Trieste, Riimini e Perugia. Clemenza a Milano, Venezia e Bologna
L’ultima beffa agli immigrati spunta la sanatoria trappola
Input contraddittori dal Viminale. Prima rassicura gli stranieri, poi avalla il giro di vite
dal nostro inviato PAOLO RUMIZ
TRIESTE – Come criminali comuni,
magnaccia o spacciatori di droga. Gli immigrati che hanno fatto domanda
di sanatoria ma in passato non hanno rispettato un decreto di
espulsione vanno rispediti a casa.Non ovunque, ma così, come gira agli
uffici stranieri delle questure. Qua e là, alla chetichella, partendo
dalla provincia, che nessuno mangi la foglia in anticipo. Uno sì e
l’altro no, in modo che tutti restino col fiato sospeso. Funziona così
la sanatoria Maroni: inflessibile in alcune province, a maglie larghe
altrove. Una dicotomia interpretativa che colora la carta d’Italia come
le chiazze del morbillo.
Durezza a Trieste, Rimini, Perugia. Clemenza
a Milano, Venezia, Bologna e in altre province. Incertezza ovunque, di
conseguenza. La voce si è sparsa e gli immigrati si scoprono a
bagnomaria, con un contratto regolare in mano ma senza sapere ancora se
saranno espulsi o no. In gran parte africani, gli stessi che la mafia
ha preso a fucilate a Rosarno. I più visibili, quelli espulsi più di
frequente, dunque più ricattabili e di conseguenza a costo più basso
sul mercato del lavoro. L’incertezza del diritto in Italia la vedi
sulla pelle degli stranieri.
La storia si gioca negli ultimi sette
mesi, da quando parte la sanatoria Maroni. A monte, la contraddizione
insita nella precedente legge Bossi-Fini, che all’articolo 14 individua
nella mancata ottemperanza all’espulsione l’unico reato veniale del
codice per il quale è previsto l’arresto obbligatorio. Come dire: non
hai fatto niente, ma ti ficco dentro lo stesso. Di fronte a questa
incertezza del diritto, molte organizzazioni vogliono vederci chiaro. I
condannati per mancata obbedienza al decreto di espulsione possono fare
domanda, sì o no?
La Confartigianato di Rimini per esempio, città
che in seguito vedrà espulsioni, pone il quesito al Viminale. Ottiene
circostanziata risposta ufficiale via mail in 48 ore: la richiesta si
può fare. Data: 23 settembre 2009. Anche il buon senso dice che non può
essere altrimenti. Che cosa si deve sanare se non una precedente
illegalità? Che senso avrebbe impedire la legalizzazione di coloro che
sono stati illegali? Insomma: lasciate che le pecorelle vengano a noi
con fiducia.
Tutto sembra mettersi bene. Il ministero raccomanda alle
prefetture, che devono istruire le domande, di lavorare con larghezza.
Ovunque si instaura un clima di efficienza ecumenica. Traduttori,
mediatori culturali, rispetto. L’Italia sembra improvvisamente un altro
Paese. Ma attenzione: la raccomandazione del Viminale non avviene per
iscritto ma con telefonate dirette a ogni prefetto d’Italia. L’elettore
medio non deve sapere che questo governo tratta gli immigrati come
persone.
Ma i prefetti non si formalizzano e la macchina s’avvia.
Scatta l’emersione. Decine di migliaia di stranieri escono dalle
catacombe, trovano datori di lavoro per un contratto, spesso minimale
ma sufficiente. Pagano l’Inps e le varie tasse di regolarizzazione.
Firmano montagne di carte. Fanno lo stesso i cittadini italiani che li
hanno assunti. Ma l’ultima parola spetta alla questura, che deve
controllare la fedina degli stranieri.
E qui il clima cambia di colpo.
Alcune questure convocano gli immigrati, comunicano il respingimento
della domanda e, contestualmente, il decreto di espulsione. Il pollo è
lì, si è autoconsegnato con i documenti in mano, e viene caricato su un
aereo. La sua colpa è appunto quella individuata dalla Bossi-Fini:
avere ignorato la condanna all’espulsione. Il tutto gli viene spiegato
senza preavviso prefettizio e senza dar tempo al malcapitato di
consultare un legale. Via subito. Il caso di Trieste.
La voce gira, e
gli immigrati si organizzano, cercano patrocinio legale. Alcuni
consegnano i passaporti ai loro datori di lavoro, non si sa mai. Tutti
fiutano il trappolone, temono che la larghezza iniziale sia stata
propedeutica alla chiusura successiva. E intanto partono nuove domande
al Viminale. Il giornale di Trieste, per esempio, segnala la cosa al
ministro, il quale risponde, ma con un appunto anonimo, cioè senza
firma, compilato dalla stessa questura.
C’è scritto: la condanna per
mancata obbedienza all’espulsione è da considerarsi reato grave, tant’è
vero che comporta arresto obbligatorio. La cacciata dall’Italia è
dunque legittima. L’esatto contrario di quanto sostenuto ufficialmente
il 23 settembre. Ora nemmeno al ministero ci capiscono più niente. Gli
uffici cui fanno capo le prefettura ignorano quanto pensano e fanno al
piano di sopra gli uffici delle questure. Il marasma è tale che le
stesse questure chiedono istruzioni, vedi Pavia e Alessandria. E il
ministro risponde con appunti senza firma perché non può sostenere un
nonsenso e contraddirsi.
“Noi applichiamo la legge” dichiara il
questore di Trieste, il quale peraltro aggiunge subito dopo che il
reato in questione “può rientrare” tra quelli ostativi alla concessione
della sanatoria. “Può rientrare”, si badi bene: non “rientra”. Dunque
quell’interpretazio
ne è, per sua stessa ammissione, facoltativa. Ed è
quanto avviene, per l’appunto, in giro per l’Italia. Chi vuol mostrare
i muscoli col ministro espelle; gli altri no. E le prefetture, laddove
subalterne alle questure, si adeguano all’anarchia interpretativa.
Sulla quale sarebbe ora che il ministro si pronunciasse in prima
persona, in nome dello stato di diritto.