ANTIRAZZISMO/ I CIE come prigioni, o peggio

MERCOLEDÌ, 03 FEBBRAIO 2010 Messaggero Veneto Pagina 4 – Attualità

«I centri immigrati sono come prigioni»

La denuncia di Medici senza frontiere: nelle 21 strutture nessun diritto

Sporcizia e sovraffollamento: 12 persone in un container di 25 metri quadrati Ci vivono il 45% di ex detenuti. La richiesta: chiudere i Cie di Trapani e Lamezia

ROMA. Passa il tempo ma i Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, che accolgono clandestini e richiedenti asilo restano gli stessi: continuano a rispondere a criteri di emergenza, non garantiscono diritti e tutela sanitaria. La fotografia di Medici senza frontiere sullo stato dei 21 centri (Cie, Cara, Cda), a 5 anni dall’ultima rilevazione, non cambia la sostanza di ciò che sono: «danno servizi scadenti, mancano i beni di prima necessità. Riescono a coprire appena i bisogni di base. La sanità pubblica è assente».
Tutto ciò si traduce, in permanenze in container fatiscenti e sovraffollati (in uno di 25 metri quadri vivevano in 12 persone), assenza di spazi adeguati, servizi igienici fortemente carenti, sporcizia diffusa ed anche presenza di topi. Vivono così uomini, donne, bambini ed anche neonati. Trentacinque i giorni di permanenza media.
I Cie poi, ribadisce il rapporto presentato ieri alla stampa (le visite sono state realizzate fra dicembre 2008 e agosto 2009), «sono carceri a tutti gli effetti», in cui vive il 45% di ex detenuti ed anche vittime di tratta. La responsabilità di ciò, per Msf, è da attribuire ai gestori. Ma non solo. «Verso gli immigrati il clima è sempre più ostile – ha detto il direttore generale Kostas Moschochoritis – e lo dimostra la vicenda di Rosarno».
Chiudere i Cie di Trapani e Lamezia Terme. Sono «totalmente inadeguati, sono luoghi invivibili» e c’è anche chi ci vive per 6 mesi; in molti casi mancano le finestre alle camere. A Roma, «mancano persino beni di prima necessità come coperte, saponi, vestiti, carta igienica».
Assenza di controlli sanitari. L’assistenza sanitaria è erogata dai singoli gestori; le Asl non hanno il controllo, nè di malattie nè di eventuali epidemie (rilevata la scabbia in alcuni casi) di quanto avviene nei centri. Mancano protocolli medici comuni. È insufficiente anche l’assistenza legale e psicologica. È stato riscontrato anche un uso di psicofarmaci per «sedare» le persone. A Roma e Torino mancano i mediatori culturali, impossibile conoscere i reali bisogni sanitari.
Gente non ha nulla da fare. I ritmi nei Cie sono scanditi dai pasti e dal sonno; ciò aggrava lo stato psicologico delle persone già provata dal viaggio per arrivare in Italia.
Il 50% intervistati da almeno 5 anni in Italia. Almeno la metà degli intervistati da Msf è nel nostro Paese da non meno di 5 anni; alcuni anche 15-20 anni.
Tensioni nei centri. Msf ha più volte rilevato i segni di tensioni e rivolte, come muri anneriti. Nel Cie di Gradisca di Isonzo, ad esempio, la visita è avvenuta senza elettricità perchè due giorni prima una protesta aveva reciso i cavi elettrici.
Impedita visita bari e Lampedusa. La Prefettura non ha autorizzato in questi centri l’accesso di Msf.
«Noi diversi dalla Croce Rossa». Sul ruolo della Croce Rossa che gestisce alcuni Cie, Msf – rispondendo a una domanda in conferenza stampa – ha tenuto a segnare la diversità: «Msf – ha detto Rolando Maniano, vice capo della ong in Italia – è un’ organizzazione indipendente, vive con i proventi dei donatori privati, la Cri invece è alle dirette dipendenze del governo italiano, i nostri intenti sono diversi». Alessandra Tramontano, coordinatrice medica di Msf Italia, ha rilevato che nel Cara di Foggia, gestito dalla Cri, il «servizio medico è di alto livello» ma il contesto abitativo «è carente».

 

 

MV MERCOLEDÌ, 03 FEBBRAIO 2010

Pagina 4 – Attualità

Nel 2009 rivolte, aggressioni e fughe

GRADISCA. Promosso, o meglio non bocciato, a livello di struttura, ma preso a riferimento come il centro più sensibile a tensioni e rivolte.
In quanto a criticità è un ruolo di primo piano quello riconosciuto al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Gradisca d’Isonzo dal rapporto di Medici senza frontiere, che ha tenuto conto delle visite effettuate dall’organizzazione umanitaria indipendente di soccorso medico, dal dicembre 2008 all’agosto 2009, nei 21 centri operanti sul territorio nazionale (oltre ai Cie sono finiti sotto la lente d’ingrandimento anche i Cara, centri di assistenza per richiedenti asilo, e Cda, centri di accoglienza) in tema di contrasto dell’immigrazione clandestina e di accoglienza.
Medici senza frontiere, si legge nel rapporto, «ha più volte rilevato segni di tensioni e rivolte, come muri anneriti a seguito di incendi. Nel Cie di Gradisca d’Isonzo, ad esempio, la visita (effettuata nell’aprile 2009) è avvenuta senza elettricità perchè due giorni prima una protesta aveva reciso i cavi elettrici».
Situazione rimarcata anche da Rolando Magnano, vice capo missione di Msf Italia, che ha confermato come nel «Cie in provincia di Gorizia siamo entrati dopo giornate di scontri durissimi, scortati dalla polizia in assetto anti-sommossa». Una realtà di tensione permanente confermata anche dalle ripetute denunce del personale dell’ente gestore del Cie (il consorzio cooperativistico trapanese Connecting People) in merito alle aggressioni subite dagli immigrati clandestini, addirittura una decina solo negli ultimi due mesi del 2009, tra cui quella che lo scorso 19 dicembre ha obbligato al ricovero in ospedale di un operatore a causa di una costola frattura e due incrinate dalla gomitata ricevuta da un algerino.
L’ultima fuga, invece, si è registrata lo scorso 27 dicembre, qundo a far perdere le proprie tracce furono due clandestini tunisini. Nelle due strutture gradiscane, al momento a pieno regime, sono ospitati 329 immigrati. Di questi 191 nel Cie, dove la capienza sarà aumentata a 248 posti solo una volta ultimati i lavori di potenziamento dei sistemi di sicurezza (sistemi a infrarossi e il ripristino degli spuntoni in cima alle recinzioni, rimossi nel 2007), mentre il Cara ospita attualmente 106 uomini, 17 donne e 15 minori, tutti in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato.
Marco Ceci